Mentre Milano si è messa subito al lavoro per ripulire strade e muri dai disastri causati dai Black Bloc nel giorno di apertura, l'Expo 2015 comincia a muovere i primi passi. È questa, come noto, un'Esposizione universale dedicata all'alimentazione e al cibo, un tema "enorme", considerate le sue implicazioni economiche e sociali. Il cibo è un bisogno primario da soddisfare, ma anche un grande business. E infatti, come denunciano in questi giorni varie realtà della società civile italiana, la Carta di Milano, che avrebbe dovuto rappresentare l'eredità immateriale di questa Expo, è già stata privata dei suoi contenuti più forti, in particolare la condanna delle speculazioni finanziarie attorno ai prodotti alimentari e il land grabbing, la pratica di acquistare vasti terreni – soprattutto in Africa – per coltivare prodotti da esportazione (lo fa ad esempio la Cina, che ha una popolazione enorme da sfamare) o per coltivare biocarburanti (qui pare che la riformulazione l'abbiano voluta anche gli USA).
Detto questo, chi scrive rimane favorevole a Expo 2015, sia perché vi ha in minima parte contribuito (con alcune foto presenti nel padiglione della Santa Sede, curato dalla regista Lia Beltrami) sia perché pensa che in definitiva è bene che di questi temi si parli, anche con le multinazionali come la Coca Cola, la Nestlè o la Monsanto, la cui presenza è stata giudicata da molti scandalosa, considerato che la logica con cui esse operano è agli antipodi rispetto a quello che dovrebbe essere l'imperativo categorico della manifestazione, cioè sostenere i piccoli produttori, valorizzare la biodiversità e le tipicità locali, promuovere una cultura del cibo nuova.
Ma tant'è. In attesa di vedere come andranno le cose, dedichiamo questa settimana Walk on the book side ad una breve, personalissima carrellata sul rapporto fra cibo e libri (soprattutto letteratura).
Parlare di cibo e classici è forse fin troppo scontato: in Rabelais, in Baudelaire, in Proust, in Joyce e compagnia cantante, i riferimenti al mangiare e al bere abbondano. Anche del Pranzo di Babette di Karen Blixen si sa tutto, grazie al fortunato film che ne è stato tratto, così come delle intemperanze alcoliche di Charles Bukowski. Per quanto riguarda il tema del controverso rapporto dell'uomo contemporaneo (e soprattutto della donna contemporanea) con il cibo, insomma dell'anoressia e della bulimia, esso è presente in un numero ormai incalcolabile di romanzi, spesso a sfondo autobiografico: rinuncio all'impresa di citarne solo alcuni, sia per incompetenza sia perché convinto che gli interessati, in ogni modo, non abbiano che l'imbarazzo della scelta.
Soffermiamoci invece sul fecondo rapporto fra cibo e romanzo giallo, rapporto molto stretto, anche solo rimanendo ad alcuni fenomeni letterari recenti: Pepe Carvalho, l'ispettore di Barcellona inventato da Manuel Vázquez Montalbán, così come il suo contraltare italiano, l'ispettore Montalbano di Andrea Camilleri, appassionato di olive nere, caciocavallo e dei piatti di pesce che gli cucina la cameriera Adelina Cirrinciò o che consuma al ristorante "San Calogero". Il connubio giallo-cibo (e vino) ha ispirato fra gli altri Giovanni Negri, nel suo Il sangue di Montalcino, con protagonista il commissario Cosulich, mentre attraversando l'oceano e sbarcando negli USA troviamo il detective Chen, creato dalla fantasia di Qui Xiaolong, che in romanzi come Quando il rosso è nero, fra un'indagine e l'altra, trova il tempo di mangiare spaghetti con cavoli verdi sottaceto e germogli di bambù invernali con maiale xiao. Naturalmente su questi e altri protagonisti di crime stories grava l'ombra dell'ispettore Maigret, oggetto di tanti indimenticabili romanzi di Georges Simenon, ma anche il Marlowe di Raymond Chandler non è stato avaro di consigli di cucina, per non dire del Nero Wolfe di Rex Stout.
Torniamo agli autori italiani, ma cambiamo genere: la mia memoria corre ad uno dei pochi romanzi che abbia letto che pubblica in coda un elenco di ricette "dei piatti che si mangiano (o si potrebbero mangiare) in questo libro", ovvero il bellissimo, onirico Requiem di Antonio Tabucchi, ambientato a Lisbona e scritto – pur essendo l'autore di origini toscane – in portoghese. Simonetta Agnello Hornby a sua volta ci ha regalato delle ricette nel suo Un filo d'olio, un pezzo di autobiografia riguardante i ricordi dell'infanzia e in particolare delle vacanze estive nella campagna agrigentina, con ogni sorta di prodotti della tradizione siciliana.
Sul versante alcolico, si va innanzitutto a passeggiare per le Langhe con Pavese e Fenoglio, ma fra i libri più recenti e meno noti vale la pena segnalare il Manuale a uso dei giovani per imparare a bere di Mauro Corona, anche se qui non siamo proprio sul terreno del romanzo. Alpinista e scrittore "di montagna" ormai da tempo uscito dalla nicchia e affermatosi presso il grande pubblico, Corona qualche problema con l'alcol ce lo ha avuto, ed è per questo che il suo libro è interessante, perché è appassionato e sincero.
Il vino italiano è spesso stato protagonista dei romanzi: ritorna ad esempio in quelli di Hemingway, come il Valpolicella di Di là dal fiume e tra gli alberi, ambientato fra Venezia e il Veneto, mentre in Vino dentro di Fabio Marcotto, che sta diventando anche un film, protagonista è il vino del Trentino, in salsa "futurista". Alessandro Baricco, invece, ne I barbari (una raccolta di saggi pubblicati originariamente sul quotidiano La Repubblica) stigmatizza l'imbarbarimento della cultura del vino dopo il suo approdo negli USA e il decollo di quello che definisce "Hollywood wine" (vino adatto ai palati americani, anonimo e stereotipato); probabilmente i tanti lettori americani, appunto, ma anche sudafricani o cileni (paesi dove oggi si produce dell'eccellente vino) non saranno d'accordo con lui.
Ancora alcuni titoli imperdibili. Il primo è La zuppa di Kafka di Mark Crick, un'ambiziosa "storia della letteratura mondiale dalle origini ad oggi in sedici ricette" in cui si spazia da Caucher a Calvino, da Mann a Austen, passando per Borges, Proust, Marquez, Steinbeck. Il secondo è Fame, del premio nobel norvegese Knut Hamsun, pubblicato nel 1890, storia di uno scrittore ridotto letteralmente alla fame (una fame che è tanto reale quanto metaforica) da cui sono stati ricavati anche due film. Per rimanere sul tema, un consiglio spassionato è Biografia della fame di Amélie Nothomb, excursus davvero avvincente dal quale si ricava che la fame è un po' il motore del mondo e della storia e che chi non ha fame è poco interessante. Ed ancora: Afrodita, di Isabel Allende, che racconta – finalmente – due piaceri, quello della gola e quello della carne, uniti dal ponte dei cibi afrodisiaci. Last but not least infine la raccolta di racconti con cui ha esordito nel 1988 Banana Yoshimoto, divenuta in seguito uno dei nomi più affermati della letteratura giapponese a livello mondiale: naturalmente, il delizioso Kitchen.
Ma cosa sono, in definitiva, cibo e vino nella letteratura? A volte sono esattamente quello che dichiarano, una nota di colore, un modo per caratterizzare un personaggio, a volte sono un'ossessione monomaniacale, la perfetta metafora di una dipendenza (amorosa e d'altro genere) o semplicemente il prodotto di una situazione di indigenza che gli scrittori, soprattutto agli esordi, spesso conoscono sulla propria pelle. A volte il cibo designa uno spaesamento, la perdita di radici: il protagonista di un romanzo di Coetzee, emigrato a Londra da un paese lontano, si lascia quasi morire di inedia nel suo flat perché si nutre solo di cibo spazzatura. Ma quando l'agognato cibo arriva, spesso assieme ai soldi, allora è festa grande: lo è per il Santo bevitore di Rorth, lo è per Henry Miller quando riesce a incassare un assegno, lo è per il Dean Moriarty di Kerouac, che pure, nonostante la spavalderia beat, al ritorno da un'escursione in alta montagna esita ad entrare in un ristorante un po' più costoso della media a cui è abituato, perché si sente semplicemente inadeguato.