Ho appena visto la retrospettiva di Francis Picabia al MoMA. È una di quelle mostre che producono l’effetto entusiastico di una scoperta, di una visione inedita delle cose. Un circuito di sensazioni che Picabia stesso aveva previsto, sia psicologico che meccanico, quando aveva coniato la frase usata ora nel titolo della sua mostra: Francis Picabia: Our Heads are Round so Our Thoughts Can Change Direction, e cioè “le nostre teste sono tonde così che i nostri pensieri possano cambiare direzione.”
Era nato nel 1879 a Parigi da una ricca famiglia di industriali franco-cubana, perciò nessuna difficoltà pratica aveva mai interferito nei suoi sovversivi sforzi di comprensione e rappresentazione del reale attraverso l’arte. Il suo cosmopolitismo e la sua ricchezza gli avevano consentito anche di assumere una sdegnosa indipendenza quando l’Europa si era spinta in una guerra fratricida. Così aveva passato prima in Svizzera, poi a New York gli anni ’15-’18, e lì aveva condotto esplorazioni della tumultuosa realtà mondiale circostante servendosi , per la sua interpretazione, di materiali industriali anziché della pittura a olio e anticipando movimenti che si andavano proponendo negli stessi anni altrove, il Cubismo prima, poi il Futurismo.
Solo adesso il profondo legame di Picabia con questi ambienti cosmopoliti è dissepolto e messo in luce da questa mostra retrospettiva, prima vera valutazione di un grande ma misteriosamente quasi ignorato maestro. A realizzarla è stata una delle principali curatrici del museo newyorchese, Anne Umland, in significativa collaborazione con Cathérine Hug, sua collega della Kunsthaus di Zurigo.
La mostra al MoMA, proveniente da Zurigo, comprende non meno di 241 pezzi, di cui solo la metà dipinti (la maggioranza in smalti o acrilici usati all’epoca solo per processi industriali) l’altra disegni, macchine, libri, collages, registrazioni sonore, giornali editi dall’artista, poesie, il film surrealistico Entr’Acte prodotto in collaborazione con René Clair e scenari per un balletto con la musica di Erik Satie.
Il fatto è che grazie a questa multiformità di media – essa stessa insolita nel suo tempo e anticipatrice – Picabia ha continuato a precede sempre di qualche passo o di molti – e ce se ne avvede solo adesso – una quantità di altre maniere espressive che altrove stavano solo affiorando, prima il Dada , poi la pittura non-oggettiva (in una sua speciale versione “meccanomorfica”) poi il Neo-espressionismo tedesco e americano, la Pop Art, l’arte di installation e di appropriazione. In tutto ciò e nelle sue versioni speciali (i “monstres” del 1925, le figure carnevalesche, le meravigliose “trasparenze”, l’uso di materiali inediti, prima quelli propri della stessa arte, come i pennelli, i barattoli di vernice o i loro coperchi, poi altri qualsiasi come fiammiferi, spille, pasta alimentare) la mostra lo segue attraverso non meno di dieci periodi fino alla sue ultime creazioni. Queste includono una serie di illustrazioni per libri e il dipinto La terre est ronde/K. O., tutt’e due del 1951.
La morte sarebbe avvenuta a Parigi due anni dopo. Durante la Seconda guerra mondiale, in cui era rimasto a Parigi o a Cannes senza mai prendere posizione per nessuna delle parti, aveva prodotto cavernosi dipinti di soggetti ambigui che attendono di essere interpretati, forse uno specchio delle ambiguità moralità del tempo; e cominciato un gruppo di dipinti monocromatici in densi impasti di colore che precedono, come sempre, una maniera invalsa anni dopo, tra le pagine non figurative della Pop Art.
La straordinaria mostra ha prodotto un altrettanto straordinario catalogo con saggi di una ventina di studiosi e 500 illustrazioni, in vendita presso il museo newyorchese e quello di Zurigo (75 dollari), e una vasta presentazione su Internet che include indagini tecniche come radiografie e riflessografia infrarossa, che gettano luce sull’evoluzione di Picabia e sul suo innovativo uso dei materiali.