Leggere Peter Stein. Un’altra prospettiva firmato dall’attore e regista Gianluigi Fogacci (Manni editore, 174 pp., 16 euro il prezzo), equivale ad un’immersione esaltante nella storia del teatro contemporaneo europeo, perché di questo si tratta: si ripercorre la vita e la carriera del regista tedesco, attraverso un’intervista al contempo intima e professionale.
Peter Stein nasce nel 1937 a Berlino e cresce nell’area francese, la sua è una famiglia dell’alta borghesia, come si evince dal racconto, infatti il padre era un ingegnere che si occupò della direzione di decine di fabbriche per la produzione bellica sotto il governo nazista.
Stein ci tiene ad evidenziare questo elemento biografico paterno, causa di traumi e sofferenze per una personalità sensibile e riflessiva come la sua. I suoi ricordi di bambino infatti sono molto influenzati dalla mancanza di serenità e schiacciati dalla brutale presenza della guerra e delle enormi atrocità, di cui il padre era stato complice. Lo immaginiamo in seguito, in un possibile conflitto generazionale con un genitore immerso in una vita lavorativa compromessa per sempre dalla prepotenza nazista.

Indubbiamente ciò che fosse adatto alla sua esistenza, Peter Stein lo comprese sin dall’inizio, dilettandosi nello studio dei classici al liceo, traducendo a soli quattordici anni il “Filottete” e imponendosi una “Biblioteca interna”, che molto probabilmente ancora oggi non lo abbandona.
Si iscrisse a storia dell’arte, dedicando una buona parte dei suoi studi anche alla letteratura prima a Francoforte e poi a Monaco di Baviera, dimostrando di avere una vera passione sopratutto per il teatro.
La sua esistenza fu segnata dalla malattia prima da piccolo per malnutrizione, poi da ragazzo per reumatismo, tanto che la sua famiglia decise di portarlo ad Abano Terme.
Nel frattempo la sua vita si dirigeva sempre di più verso i palcoscenici: il giovane Stein in macchina andava da Monaco a Milano o Parigi per vedere gli spettacoli più interessanti.
Un punto di svolta per la carriera è rappresentato dal suo primo lavoro di assistente e traduttore al Kammerspiele su suggerimento di Dieter Gieser, ai tempi assistente di Erwin Piscator.
La sua vita teatrale fu intensa e fortemente condizionata dalle esperienze a Monaco, che negli anni successivi al ’68 fu il centro della ricerca sia teatrale che del Nuovo Cinema Tedesco, emblema di una generazione in grado dei liberarsi dei fardelli del pesante passato.
Il centro del suo percorso artistico fu Berlino e proprio in questa città dai mille volti, in cui passato, presente e futuro si sovrappongo senza troppe difficoltà, che Peter Stein ha trovato, a fasi alterne, la sua dimensione più disinvolta e profonda, creando negli anni 70 un ensemble di altissimo livello attraverso la Schaubühne, con attori già ai tempi straordinari come Edith Clever, Bruno Ganz, e poi Jutta Lampe, Otto Sanders e numerosi altri.
Divertente, a volte esilarante il suo rapporto di odio amore con alcuni artisti tra direttori, attori e autori: Stein ha sempre cercato la massima espressività del suo pensiero, dovendo poi allontanarsi per forza di cose da persone o lavori di una certa rilevanza a partire dagli esordi con la Schaubühne a causa del movimentato spettacolo “Discorso sul Vietnam” di Peter Weiss contro la guerra, in contrasto con le direttive governative e per concludere con le sue dichiarazioni antiwagneriane, quando non troppo tempo fa accettò per amicizia e grande rispetto di lavorare con Abbado.
Tutte le sue intemperanze e manifestazioni di personalità autentica, gli hanno comunque permesso di diventare il grande maestro che ora tutti conosciamo e che Gianluigi Fogacci ci mostra, grazie alla sua conoscenza antica, attraverso un’intervista, che potremmo definire un “manifesto del teatro contemporaneo”.
Chi ha mai avuto la possibilità di sapere che Stein avesse conosciuto Fritz Kortner, il grande attore del teatro espressionista così da vicino? Il loro rapporto mediato da regole contrattuali e frutto di due caratteri difficili era diventato durante le prove della “Signorina Julie”, l’incontro di una coppia di grandi registi e nonostante gli scontri, Kortner, negli anni, lo definì il “suo erede”.
Emozionante leggere questo libro, ricco di particolari e aneddoti della vita di un uomo complicato, delicato e con un grande senso dell’onestà intellettuale, caratteristica esclusiva solo dei veri artisti, di coloro che non si piegano mai al potere.
“Il potere ti consente di esistere anche se lo critichi; ma è grazie al sistema che tu puoi criticarlo: il sistema vince sempre.”
L’etica artistica ed estetica di Stein nel rapporto con il nostro paese emerge fortemente quando parla di libertà produttiva: in Italia gli enti teatrali sono tutti a gestione pubblica, mentre in Germania esiste una «proprietà privata», che se non altro è libera dai condizionamenti immediati della politica, ma ha bisogno degli incassi per sopravvivere.
I suoi successi non sono mai finiti dall’Orestea nel 1980 che iniziò dalle rive della Sprea fino al Teatro dell’Armata Russa e oggi lo ricordiamo come grande direttore del Festival di Salisburgo o come presenza costante in tutte le più grandi produzioni teatrali, tra cui spicca il “Faust” di Goethe, per cui riuscì a mettere assieme tutte le forze produttive possibili dal Sindaco di Vienna all’appoggio del parlamento tedesco.
Peter Stein non rappresenta solo un tipo di regia e modalità di fare teatro nell’Europa occidentale, ma il Teatro Contemporaneo, scevro di condizionamenti governativi, politici, di interesse partitico, nonostante la sua matrice culturale progressista.

Ringraziamo Gianluigi Fogacci per questa preziosa testimonianza sulla cultura teatrale e non solo, di uno dei più grandi maestri della nostra cultura contemporanea e con l’occasione lo intervistiamo per conoscere meglio la sua attuale vita artistica e le sue prossime collaborazioni.
Dopo una lunga carriera di artista di successo, hai deciso di ritagliare uno spazio al Fogacci intellettuale attraverso quest’opera così profonda e ben strutturata. Come mai?
“Intanto grazie per l’attore di successo, lo prendo come un incoraggiamento, lo stesso dicasi per la definizione di “intellettuale”. Erano diversi anni che questa idea mi girava in capo, mi onoro dell’amicizia con Peter, nata lavorando con lui nei suoi spettacoli ma che nel tempo si è sviluppata portando a frequentarci anche al di là delle collaborazioni professionali, Peter è un grande raccontatore di storie e un grande conversatore e così a un certo punto ha preso forma spontaneamente dentro di me quest’idea di raccogliere i suoi racconti, la sua parabola artistica perchè la considero un patrimonio prezioso da condividere il più possibile. Poi la cosa si è evoluta e ora sono convinto che non sia solo un libro per addetti ai lavori, ma per chiunque ami l’arte e la storia, perchè nel libro si parla molto di storia oltre che di teatro”.
Descrivici il tuo rapporto con Peter Stein, sul palco e fuori.
“Sul palco è e rimane un maestro, generoso ma esigente, di una franchezza a volte dura da ricevere, non credo di avere avuto sconti nel trattamento in virtù della nostra amicizia. Quando lavora la sua priorità è il bene dello spettacolo, ma per ottenere questo obiettivo è suo convincimento ( e anche mio del resto) che sia opportuno instaurare un buon clima di lavoro fra coloro che sono coinvolti nel progetto, per cui è sì esigente, ma sa aspettare l’attore che magari è in difficoltà; devo dire che non l’ho mai visto trattare male un attore, ci possono essere momenti di tensione è ovvio ma nulla che poi non si stemperi a cena. Fuori è in tutto e per tutto un amico, concetto assai vago e difficilmente definibile, diciamo che quando ci vediamo stiamo bene insieme e parlare con lui di qualsiasi cosa è un grande regalo della vita”.
Cosa credi di lasciare attraverso “Un’altra prospettiva?
“Credo che sia una bella storia, una profonda riflessione sul ruolo dell’arte nella nostra vita di esseri umani, da questo punto di vista credo che sia una lettura piacevole. Penso soprattutto ai più giovani, credo che per loro possa essere una lettura davvero stimolante che fa venire voglia di tentare imprese artistiche ardite, importanti, che possa aprire appunto un’altra prospettiva”.
La regia steineriana potrebbe essere una chiave di lettura della cultura occidentale e dei suoi fantasmi?
“Indirettamente sì, nel senso che credo che nessuno meglio di lui, con le sue regia abbia aiutato il pubblico ad addentrarsi nella poetica dei più grandi autori della storia europea e che sono i pilastri della nostra cultura, mi riferisco a Eschilo, Shakespeare, Cechov, ma anche Beckett e Pinter, autori che hanno anche agitato i fantasmi della nostra coscienza. La caratteristica principale delle sue regie è che sono a totale servizio dell’opera così come si suppone che l’abbia concepita l’autore, il suo approccio è estremamente filologico in questo senso, poi la realizzazione passa attraverso un lavoro d’insieme che deve essere molto vivo e vitale”.
Hai mai percepito delle differenze antropologiche tra la tua cultura di imprinting latino e quella teutonica del maestro?
“Certo, molte differenze, a volte il nostro pressapochismo, la nostra cialtroneria, imprecisione, pigrizia lo fanno infuriare, ma poi ha scelto l’Italia per viverci, ha scelto il sole, la nostra allegria, il nostro calore nei rapporti umani. Le ben note differenze fra il carattere latino e quello teutonico, anche col beneficio d’inventario del luogo comune, alla l fine credo che siano complementari, possiamo imparare qualcosa gli uni dagli altri”.
Cosa vorresti in assoluto trasmette di lui al pubblico?
“Non ho un messaggio speciale o una visione del mondo da trasmettere, faccio questo lavoro per un motivo molto egoistico: perchè ho sete di conoscenza, perchè la mia vita non mi basta per capire le cose, ho bisogno di viverne altre (anche solo per qualche ora al giorno), e perchè mi diverte. Quando sento che il pubblico si diverte con me nello scoprire le cose, allora sono contento, nonsempre accade, ma quando accade”.
Al momento a cosa stai lavorando? Ritornerai ad essere diretto da Peter Stein?
“Al momento insegno alla scuola di teatro Fondamenta, sto lavorando sugli atti unici di Cechov e su “Risveglio di primavera” di Wedekin, a fine marzo andrò a Palermo per una nuova produzione del teatro Biondo, un adattamento di “Viaggio al termine dela notte” di Celine per la regia di Claudio Collovà, poi a fine estate ci dovrebbe essere (il condizionale è d’obbligo di questi tempi) un nuovo progetto con Stein, ne stiamo parlando in questi giorni”.
Scriverai ancora?
“Confesso che è stata un’esperienza bellissima, mi piacerebbe ripeterla, qualche idea ce l’ho vediamo se e come si evolve”.