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October 6, 2017
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Il piccolo mondo antico di Hope Herman Wurmfeld, nell’Italia del 1964

La video-intervista all'artista americana, alla Casa Italiana Zerilli-Marimò NYU con la mostra fotografica "Vintage: Italy 1964"

Giovanna PavesibyGiovanna Pavesi
Time: 6 mins read

The Reading Nun. La suora che legge. “Un’immagine molto potente, per me”. È la prima foto a cui si avvicina. Con garbo e delicatezza. Parla a bassa voce, mentre, di fianco, scorrono le immagini in bianco e nero. Le osserva quasi con timidezza, come se non fossero le sue. Eppure, tutti quegli scatti le appartengono. Centinaia di migliaia di negativi che raccontano un’Italia che non c’è più. Il silenzio del corridoio è interrotto soltanto dalla voce di qualche studente che passa di lì. E dal rintocco delle campane sulla dodicesima strada, poco lontano da Union Square.

“The Reading Nun”, un’immagine della mostra “Vintage: Italy 1964” della fotografa Hope Herman Wurmfeld (foto di Marta Corradi)

“Cercherò di dimenticare che c’è una telecamera che mi sta riprendendo”, dice sorridendo, mentre guarda con stupore quei volti impressi sulle sue fotografie e si sistema gli occhiali. Conosce a memoria i tratti di tutti i volti. Le rughe. Le fessure attorno agli occhi. I dettagli. “Non potrei scegliere quella a cui sono più affezionata. È come con i figli: sono tutti diversi tra loro ed è per questo che li ami”. Si appoggia a un bastone, che la riaccompagna in un viaggio iniziato ben prima di quel 1964, data in cui scattò quelle istantanee tra Roma, la Sicilia, la Puglia, la Liguria e la Toscana. Perché Hope Herman Wurmfeld, l’Italia la vide per la prima volta quell’anno, ma il legame iniziò molto prima. Nelle sue origini.

Hope Herman Wurmfeld alla sua mostra “Vintage: Italy 1964”, alla Casa Italiana Zerilli-Marimò (foto di Marta Corradi)

L’ha chiamata “Vintage: Italy 1964”, la sua mostra alla Casa Italiana Zerilli Marimò NYU, che rimarrà aperta fino al 13 ottobre. Trastevere. Alberobello. Corleone. Porta Portese. Campo de’ Fiori. Da quell’anno, non ha mai smesso di scattare. Un pezzo di mondo perduto, in mezzo ai suoni di Manhattan. “Qui è Trastevere (che pronuncia all’americana, ndr), dove vivevamo. Passavo in questo posto, piazza Sonnino, ogni giorno. Non saprei dire, di preciso, che cosa facessero questi uomini. Penso giocassero a carte”, spiega sorridendo e indicando una delle foto appese alle pareti. Poi prosegue. E si ferma: “Questo, invece, è Corleone. Era un funerale”. Racconta di quel ragazzo che si vede in foto, con il volto plasmato dal tempo e dalle abitudini del luogo. E poco più avanti un’immagine con tanti ombrelli girati al contrario: “Ricordo di essere stata ad Assisi. Questa la scattai lì vicino, ma non sono mai riuscita a ricordare il nome di quel posto. Era una festività. Dalle finestre venivano lanciati soldi e caramelle, per questo gli ombrelli erano rivolti verso l’alto”.

Un’immagine della mostra della fotografa Hope Herman Wurmfeld, “Vintage: Italy 1964” alla Casa Italiana Zerilli-Marimò (foto di Marta Corradi)

A Roma la chiamavano “Espé”, da “Speranza”, la traduzione del suo nome. E lei non l’ha dimenticato. Nella capitale visse a lungo, con il marito, quando erano entrambi molto giovani. Girava con due macchine fotografiche, per non perdersi nulla.
“Mi piacerebbe tornarci, anche se è passato molto tempo. Là troverei i figli o nipoti delle persone che ho fotografato, magari proprio a Trastevere, in quel periodo. Mi piacerebbe tornare dai miei vecchi vicini e vedere ciò che posso trovare”.

Herman Wurmfeld, quello del 1964 fu il suo primo viaggio in Italia?

“C’ero stata, per un periodo piuttosto breve, l’anno prima. Ma non mi fermai a lungo. Il ragazzo che ho sposato, a Roma, era già lì. Arrivai durante il Thanksgiving. Quell’anno ci fu l’assassinio di J.F. Kennedy e alcune lezioni vennero cancellate e riuscii a rimanere più a lungo. Mi sposai a marzo e rimasi lì per il resto dell’anno”.

Che cosa la colpì di questo Paese?

“Sentii un’affinità particolare per quei posti e avvertii un senso di realtà che non avevo mai visto prima. Non avevo mai visto ciò che vidi lì. Venivo da un altro tipo di mondo, da una città a 30 miglia da New York. Quello italiano era un altro mondo e ho sempre pensato fosse incredibilmente bello”.

Cosa intende?

“Il modo in cui tutti si conoscevano tra loro, in cui tutti si chiamavano per nome”.

Perché ha scelto di scattare proprio quelle foto?

“Avevo questo immenso archivio di immagini, perché scattai ininterrottamente dal 1964. Così ho iniziato ad aprire questi archivi dove tenevo i negativi per capire che cosa avrei voluto stampare e che cosa avrei voluto mostrare. E ho visto queste. E così, mi sono detta: ‘Queste devono assolutamente essere viste’. Ho pensato, vedendole, che quel tempo non esiste più ed è ciò che ho detto a me stessa”.

E perché, secondo lei, quel mondo non esiste più?

“Quando sono tornata in Italia, dieci anni dopo, l’ho vista cambiata. E ho pensato: ‘Dove sono gli italiani?’. Tutti indossavano jeans e felpe. Tutto appariva diverso. Così ho pensato che era venuto il momento. Avevo mostrato queste foto quando tornai indietro, alla fine del 1965”.

Dove riuscì a esporle?

“Furono esposte a Princeton, nel loro dipartimento di Grafica. Queste foto, comunque, rappresentano per me molto più di una mostra: le immagini, dal mio punto di vista, devono essere forti, graficamente forti. Non so, è molto difficile descriverlo”.

Un’immagine della mostra della fotografa Hope Herman Wurmfeld, “Vintage: Italy 1964”, alla Casa Italiana Zerilli-Marimò (foto di Marta Corradi)

Che cos’ha visto nell’Italia che ha fotografato?

“Ho visto persone. Che avevano affrontato di tutto e ne erano usciti forti, uniti e con un forte senso di famiglia”.

Che cosa intende?

Nessuno di loro aveva dimenticato i propri valori, le proprie case. Ho visto una grande forza e un amore per la famiglia, per il cibo e per le risate. Era semplicemente meraviglioso. Questo è ciò che ho trovato.  E ho visto generosità. Soprattutto verso di noi: quando vivevamo a Trastevere, all’inizio, il vicinato, o meglio, qualcuno di loro, aveva tolto tutte le ruote alla nostra macchina e, credo anche i sedili, per rivenderli da qualche parte (sorride, ndr). Ma quando realizzarono chi fossimo, che vivevamo lì e che eravamo diventati amici con le persone del posto, ecco, poi non è mai più accaduta una cosa del genere. E si presero cura di noi (sorride, ndr)”.

Lei ha viaggiato in tutto il Paese, da Nord a Sud. Si ricorda quali furono le differenze che la colpirono maggiormente?

“Al Nord visitammo piccole città, ma riuscimmo ad andare anche a Genova e a Firenze. In Sicilia, ricordo, di aver passato del tempo a Marsala, Trapani, Palermo. Sembrava tutto molto più ‘rustico’. Io fotografavo solo ciò che vedevo. Cercavamo, fondamentalmente, cattedrali. Vidi il magnifico Cristo Pantocrator, a Monreali e vidi anche delle magnifiche processioni pasquali. Erano incredibili”.

La mostra della fotografa Hope Herman Wurmfeld, “Vintage: Italy 1964”, alla Casa Italiana Zerilli-Marimò (foto di Marta Corradi)

Ha mai cercato di parlare con chi fotografava?

“Molti di loro erano probabilmente anche un po’ ubriachi (sorride mentre si riferisce alle foto di uomini seduti davanti a un tavolino di un bar, ndr). Ci sorridevamo. Loro mi osservavano e cercavano di capire che cosa stessi facendo. Ma non c’era conversazione ed era meglio così. A Trastevere, per esempio, avrei voluto dire a tutte quelle donne che erano bellissime, così com’erano. Volevo essere come una specie di mosca. Non volevo disturbare nessuno per ciò che stavo facendo. Mi vestivo di scuro e cercavo di ‘mimetizzarmi’, in modo che anche la macchina fotografica non si vedesse”.

Un’immagine della mostra della fotografa Hope Herman Wurmfeld, “Vintage: Italy 1964”, alla Casa Italiana Zerilli-Marimò (foto di Marta Corradi)

Le sue foto ricordano quelle di Henri Cartier-Bresson. Si è mai ispirata a lui?

“Io amo la sua fotografia, ma questo lavoro l’ho fatto prima di vedere il suo. Mio marito, per il nostro primo anniversario, mi regalò proprio un suo libro di fotografia. L’ho amato come ho amato Paul Strand, che era stupefacente. E anche Walker Evans”.

Come ha scoperto di avere origini italiane?

“Ho sempre saputo di essere stata adottata, ma non sapevo quali fossero le mie origini, ma avevo pochissimi dettagli riguardo al mio passato. A scuola avevo iniziato a fare delle ricerche in biblioteca nell’aula di genealogia. Era complicato. Trovai, però, questo libro che consultai autonomamente. Così ho controllato la mia data di nascita e l’ho confrontata con il numero del mio certificato di nascita. Ho visto che il mio nome era cambiato. Ho fatto parte di un’organizzazione che cercava di aiutare le persone, ma non è stata tanto d’aiuto. Poi, però, Timothy Beard, che si occupava della sezione di genealogia, mi diede un pezzo di carta con su scritto un nome e mi disse che quella persona sarebbe stata in grado di aiutarmi, perché si occupava di trovare persone scomparse”.

 E che cosa accadde?

“Lei non fu in grado di dirmi chi fosse mio padre ma in due settimane riuscì a delineare la mia famiglia. E ho scoperto di essere, al 100%, per metà italiana. Ma scoprirlo non mi sorprese, in fondo ci speravo forse (sorride, ndr)”.

Quanti anni aveva quando scoprì che era anche italiana?

“Ero sposata con due bambini. I miei figli avevano i capelli biondi e gli occhi azzurri ed erano mancini. E mi chiesi: da dove arrivano questi bambini (ride, ndr). Fondamentalmente volevo sapere la storia della salute della mia famiglia e scoprii che tutti erano estremamente sani”.

Le sue foto in Italia, le sue origini. Un segno.

“Questa è stata una combinazione incredibile nella mia vita: le foto, la mia storia. Tutto ha funzionato”.

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Giovanna Pavesi

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