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November 27, 2014
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Al Metropolitan un filo rosso tra Cézanne e il Cubismo

Mauro LucentinibyMauro Lucentini
Time: 3 mins read

 

Due esposizioni aprono in questo momento a New York nuovi spiragli di comprensione su ciò che è avvenuto in un fatidico mezzo secolo oltre cento anni fa per trasformare l’indagine della natura – oggetto, da millenni, dell’ambizione dell’artista – in  indagine della realtà (l’equazione sembra la stessa ma non lo è; nella seconda manca un obbiettivo metafisico che è nella prima). 

Invece dei volumi che occorrerebbero per parlarne, è qui  disponibile qualche riga. Il primo passo è stato piuttosto un gigantesco balzo, quello fatto da Cézanne, oggi da riconoscere indiscutibilmente come padre dell’epoca moderna dell’arte, sul giro tra l’Ottocento e il secolo successivo; balzo di cui non potrebbe esserci dimostrazione più convincente della straordinaria esposizione Madame Cézanne in corso al Metropolitan Museum. I conservatori del museo (segnatamente, Dita Amory e Kathryn Kremnitzer) sono riusciti a mettere insieme, con ricerche in tutto il mondo, ventiquattro dei ventinove ritratti, oltre a numerosi disegni preparatori, che questo umile gigante fece della propria modella e poi moglie, con disciplina quasi ossessiva, a partire dal 1869 negli ultimi trentasette anni della sua vita.

Madame Cezanne

Paul Cézanne (French, 1839–1906). Madame Cézanne in a Red Armchair (Madame Cézanne in a Striped Dress) (detail), ca. 1877. Oil on canvas. Museum of Fine Arts, Boston, Bequest of Robert Treat Paine, 2nd

Direste che di questa vita comune contrassegnata da drammatiche tensioni – l’ostilità della famiglia, le ristrettezze economiche, la nascita di un figlio naturale  e il suo riconoscimento ma solo decine di anni dopo e il tutto sempre su uno sfondo d’affetto senza limiti e senza domande – qualche riflesso di tutto questo dovrebbe esserci in questa pinacoteca di ritratti ma invece non c’è; distaccandosi radicalmente dalla tradizione, l’artista indirizza ogni sforzo a rincorrere, attraverso una tecnica inedita di successivi incrementi del segno, per cui la striaura, la macchia applicate con meticolosità estenuante, ostinata della pennellata, sul volto che invecchia, sul corpo che si appesantisce, sulle pose che mutano, sulla luce che erompe o si cambia in ombra, sul panneggio, sull’ambiente, raggiunge il miraggio ultimo della forma rivelatrice (una simile ricerca faceva, quasi negli stessi anni, Wagner). 

L’impatto di questa nuova subordinazione del dettaglio è stato istantaneo nel mondo dell’arte. La seconda esposizione, Cubism, the Leonard A. Lauder Collection, pure al Metropolitan, ne rivela le conseguenze immediate. Allineando le ben 81 storiche tele ricevute in dono da un miliardario, più disegni e taccuini preparatori, essa dimostra come immediatamente, nello stesso anno della scomparsa improvvisa – per polmonite – del grande maestro (1906), all’indomani, due pittori, Braque e Picasso, ne abbiano raccolto il legato portando avanti senza più riserve la stessa tecnica in vista di uno smembramento, uno svisceramento rivelatore dell’essenza del mondo visibile. 

Si potrebbe pensare che l’ennesimo sguardo panoramico al cubismo consentito da questa mostra non possa fruttare molte novità dopo le tante retrospettive dedicate con crescente rispetto al tema sia in America che in Europa. Non è così. La cronologia, nell’affascinante palleggio tra i due artisti, resta imprecisa. Emerge la coincidenza con altre influenze inattese e il loro peso, come il ritrovamento del primitivismo iberico e poi di quello africano da parte di Picasso o come la  – incredibile – riesumata confessione di Braque, in un’intervista, di aver voluto nei suoi quadri fare “una ricerca sulla violenza” (questo, in parallelo con i primi conati del futurismo italiano, che a sua volta ascolterà, a partire dal 1911, le lezioni del cubismo; per non parlare del Nietszche onnipresente e dei prodromi della guerra). Così la parte da dare agli elementi letteralmente scientifici come la relatività di Einstein, oggetto di meraviglia da parte degli artisti del Bateau Lavoir dopo il 1905, resta un aspetto ancora insufficientemente vagliato. La mostra rivela infine come gli impulsi estremi e qualche volta – riconosciamolo senza imbarazzo – affannosi e insoddisfacenti del cubismo di Braque e di Picasso nella febbrile fase competitiva che gli guadagnò anche le etichette di “analitico” e poi di “sintetico” abbiano inaspettatamente fruttato una elegante e seducentissima fioritura di due proseliti, Léger e Gris, riccamente rappresentati nella collezione.

    

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Mauro Lucentini

Mauro Lucentini

Sono nato e vissuto a Roma che però ho abbandonato più di mezzo secolo fa per fare il giornalista in varie parti del mondo. Ne ho tratto una specie di complesso di colpa nei confronti della mia città natale, complesso che ho un po’ alleviato scrivendo da lontano una Grande Guida di Roma, che si vende in diverse lingue in diversi paesi. A New York venni per rimanerci tre o quattro anni, invece ci incontrai la ragazza più carina e dolce del mondo così ci sono rimasto, mettendo su, come si suol dire, famiglia. Lei però, pur essendo tanto più giovane di me, è poi scomparsa come un fiorellino che muore. In questa lunga carriera, cominciata quasi da bambino, ho sempre scritto sia di politica che di arte e di questo non mi pento.

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