Beppe Grillo si sente “un po' stanchino”, e indìce consultazioni, con il consueto strumento del plebiscito digitale, per designare “una struttura di rappresentanza più ampia di quella attuale”. Indipendentemente dall’identità dei vincitori del concorso, il fatto si pone all’attenzione degli osservatori per la sua valenza simbolica. Grillo se ne va. Per la verità, essendo uomo di spettacolo (bravo), intuisce quando è ora di uscire di scena. E quell’ora è giunta. Diciamo meglio: pare giunta, giacchè è meglio prendere le distanze dalle proprie certezze. Però, insomma, i segnali non mancano, in questo senso. Segnali maggiori, come l’esito delle ultime elezioni amministrative in Emilia Romagna; o minori, come la ferma ostilità manifestata all’On. Paola Taverna dai “cittadini” del quartiere romano di Tor Sapienza, proprio il suo. Per non parlare degli immancabili sondaggi, che pure a qualcosina continuano a servire. E, se vogliamo concederci una parolona un po' demodè, anche la dialettica storica italiana si è presa la briga di mandare i suoi, di segnali.
Entro la nostra vicenda storica, il Movimento Cinque Selle può essere ricondotto a quelle emersioni effimere, ma ricorrenti, con cui la volontà popolare decide di urlare, senza troppo preoccuparsi di quale parola le è capitata nell’ugola. Perchè spinta dall’urgente necessità di urlare e basta. Di far constare alla più consueta e professionale cerchia dei governanti, cui fin lì si è comunque rivolta, che lì sotto c’è stato uno smottamento.
Il primo di questi movimenti fu il Fronte dell’Uomo Qualunque. Nato alla fine del 1945, proprio sulla spinta del “Grido di dolore” che si levava dall’Italia uscita distrutta dalla guerra, dopo una partenza sorprendente (30 deputati alla Costituente, quinto partito italiano; alle comunali di Roma, secondo partito, più avanti della DC e dietro solo a socialisti e comunisti uniti) si estinse nel giro di due anni. Alle prime elezioni del 1948, era già una pattuglia di poche unità parlamentari.
Tra gli anni ’50 e gli anni ’60, più che un movimento nazionale, si ebbe un primo esempio di populismo personalistico propriamente detto: nella figura di Achille Lauro, O’ Comandante. Amatissimo (e votatissimo) Sindaco di Napoli, una specie di San Gennaro in abito bianco da armatore caraibico. Fu meno effimero del Movimento di Guglielmo Giannini, ma passò tutto sommato in fretta pure lui. Eletto sindaco nel 1952 e rieletto nel 1956, nel 1961 il suo Partito Monarchico Nazionale era sciolto (confluì in un’altra formazione monarchica).
Il Movimento 5 Stelle è su piazza dalla fine del 2009, sebbene anticipato da varie uscite, a metà fra “teatro di strada” e “comizio autoconvocato”, avutesi nei due anni precedenti. Ha però conseguito il 25% dei voti alle sue prime elezioni politiche generali.
Il merito di queste emersioni di spontaneità popolare, un po' ingenua e un po' canagliesca, è sempre un merito “oggettivo”. Indipendente dalla quantità di “cose giuste” o di castronerie urlate dai suoi fugaci vessilliferi. Dopo il loro passaggio, i governanti “consueti” si occupano del problema emerso. E, proprio perchè se ne occupano, anche se non in modo ottimale, il problema sollevato comunque scompare e, con esso, chi lo ha sollevato. Per questo alludevo alla “dialettica”.
Giannini testimoniò oggettivamente che la fondazione della Repubblica era stata troppo frettolosa verso il suo recente passato: c’erano troppi italiani perbene che, pur non avendo votato Repubblica al Referendum o partiti antifascisti alle elezioni, non erano per questo, e con ragione, disposti a passare per reprobi. Anche perchè ogni elettore dell’Uomo Qualunque aveva davanti agli occhi almeno dieci, fra parenti amici e conoscenti, il cui specchiato e folgorante rigore repubblicano e antifascista non pareva francamente credibile. Così si “permise” la nascita del MSI. Analogo “merito” oggettivo, assolse la figura di Lauro, con più spiccata accentuazione della questione monarchica.
Perciò Grillo e il suo Movimento 5 Stelle, quale che sarà la durata del suo crepuscolo, i suoi meriti li ha già acquisiti. Diciamo pure dei meriti storici.
Primo. Con la sua posizione di “rigetto palindromo” ha impedito la formazione di un governo Bersani, a trazione Rodotà-Camusso-Spinelli-Micromega. Perciò ha, di fatto, aperto le porte all’ascesa di Matteo Renzi, a scavalco agevole dell’esangue Enrico Letta, piegatosi a tentare l’estremo salvataggio di quel progetto politico reazionario e parassitario. Merito che, da solo, gli varrebbe il senato a vita.
Secondo, ha tirato energicamente (e oggettivamente) la giacca a Berlusconi, poichè molti dei suoi voti gli hanno segnalato la sua sopravvenuta incomprensibilità politica, agli occhi dei piccoli e medi produttori. Falcidiati da una crisi economica, sono stati affidati alle cure di Tremonti: nientemeno.
Terzo. Per le stesse ragioni, Grillo ha, semplicemente e oggettivamente, “fatto dono” all’Italia di un Napolitano bis. Senza del cui equilibrio, non avremmo nemmeno le difficili ma autentiche speranze di vincere la più dura battaglia della nostra storia unitaria in tempo di pace. Questi tre “meriti” gli valgono l’uscita di scena.
Un grazie “oggettivo”.