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November 23, 2013
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Cibo e italo-americani? Un’ottima simbiosi

Chiara ZaccherottibyChiara Zaccherotti
Time: 4 mins read

Quanto ha a che fare il cibo con la creazione dell’identità collettiva di un popolo? Tanto. Con l’aggiunta di un processo migratorio, poi, il fenomeno assume caratteristiche sociali ed economiche per nulla irrilevanti. Un po’ come è accaduto agli italiani che a partire dalla fine dell’800 hanno lasciato la patria per attraversare l’oceano e raggiungere gli States. Soltanto a New York, nell’arco di qualche decennio, sono arrivate dal Belpaese ben 3 milioni di persone, la maggior parte provenienti da zone molto arretrate e intenzionate a cercare fortuna in quella che all’epoca era una delle città più industrializzate del pianeta.

Ma come vivevano? E come riuscirono a integrarsi nel nuovo mondo?

Lo spiega Simone Cinotto in “The Italian American Table: food, Family and Community in New York City” (Una famiglia che mangia insieme è il titolo italiano), il libro, presentato alla Montclair State University e ieri alla Casa Italiana Zerilli-Marimò, in cui si analizza quanto il cibo, le pratiche alimentari e i riti della tavola abbiano contribuito alla formazione dell’identità collettiva degli italiani d’America.

Lo spaccato temporale preso in considerazione da Cinotto è quello compreso tra anni Venti e Trenta del secolo scorso, un periodo in cui agli uomini, emigrati per primi e da soli durante la prima guerra mondiale, iniziarono ad unirsi anche le donne con prole a carico nel tentativo di scongiurare lo sfaldamento famigliare. Da subito, la sfera etnico-domestica e la dimensione della famiglia italiana in America si incentra sul cibo.

“Il cibo – spiega Cinotto – è l’elemento principale con cui ricreare un network tra migranti e rispondere alle specifiche esigenze dell’appartenenza etnica. Di fatto serve ai contadini inurbati a reinventarsi con delle differenze però legate alla regione di provenienza”.

Ognuno, infatti, si portava dietro la propria cultura alimentare e c’era una grande differenza tra emigrati del Nord ed emigrati del Sud, i primi intenti a differenziarsi dai secondi, con grandi investimenti di energie.

“Nell’emigrazione italiana ci sono due storie: quella di chi proveniva dal Nord Italia, e che faceva di tutto per apparire diverso dai meridionali agli occhi degli americani, e quella di coloro che arrivavano dal Sud, raggruppati in comunità più coese tra loro. E il cibo riflette perfettamente questa dimensione”.

Ma nonostante le diversità, la vita transnazionale porta con sé sensazioni emotive molto forti in cui il rituale della tavola e la cultura alimentare in generale assumono un ruolo del tutto centrale. Dalla penuria dei pasti di casa, gli italiani d’America si ritrovano ad avere accesso a una grandissima quantità di tipologie di cibo.

“Gli immigrati italiani a inizio secolo – racconta Cinotto – non solo potevano permettersi cibi che a casa loro venivano riservati ai giorni di festa, ma iniziarono per la prima volta ad avere a che fare con prodotti che arrivavano dall’Italia e che gli americani iniziarono a produrre su scala industriale: una novità per gli italiani stessi, abituati fino ad allora alla fettuccina fatta in casa”.

Inevitabili le contaminazioni. Anziché rimanere ancorati alla tradizione del vecchio mondo, gli italiani d’America hanno dato vita a vere e proprie ibridazioni culinarie, per certi versi inevitabili, che hanno portato alla cucina etnica italo-americana, con non pochi risvolti per il mercato alimentare statunitense.

“Se i primi anni l’industria alimentare si rivolge a piccole comunità, col crescere del numero degli immigrati si espande moltissimo e diventa una fetta molto importante dell’economia. Oltre a essere una rivincita e una conquista sociale, il cibo per gli italiani d’America era fondamentale perché dava lavoro a un sacco di gente e apriva allettanti prospettive economiche ai tantissimi produttori interessati a creare un mercato italo-americano del cibo”.

Poi c’è l’invenzione del ristorante, un luogo che da subito è stato funzionale alla narrazione e alla messa in scena di un’immagine popolare di italianità. La genealogia dei ristoranti italo-americani, così come ce la racconta Cinotto, è molto interessante: se agli inizi del 900 aprono per dare da mangiare agli immigrati maschi senza famiglia, piano piano si trasformano in trattorie, che dapprima riescono ad attrarre solo un piccola avanguardia di clienti americani, i bohemians anticonformisti del Village, ma poi diventano una delle mete preferite in cui rifugiarsi per bere alcolici, mentre la legge sul proibizionismo tagliava alla base tanti business.

“Quando nel 1919 la legge sul proibizionismo vietò la produzione e la vendita di bevande alcoliche, i ristoranti italiani, che le producevano e le vendevano, diventano la meta preferita dei bohemians. La comunità italiana nel Village continua a produrre vino e grappa in quantità micidiali ed è interessante vedere come, nonostante l’iper-familismo e l’attaccamento a certe tradizioni della madre patria, se ne fregava di avere come clienti un gruppo di alternativi avanguardisti: compravano i loro prodotti e portavano soldi”.

Nel business del Village i ristoranti italiani sono lo specchio contrario al self-control anglo-protestante e rappresentano un’identità ottima da vendere perché attraente per il cliente americano. Una realtà, quella dei ristoranti italiani in America, che ancora oggi mantiene il suo fascino indiscusso.

“Un Made in Italy creato dal basso dagli immigrati, per rispondere sia alle loro esigenze che a quelle dei loro primi consumatori”.

Tra cibo e cultura italo-americana c’è ancora un’ottima simbiosi e forse è proprio questo Made in Italy così antico, vissuto e popolare che, differenziandosi da quello del design o della moda, oggi non più attraenti come ieri, continua ad avere forza e a collezionare successi.

 

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Chiara Zaccherotti

Chiara Zaccherotti

Laurea in Scienze della Comunicazione e un master in Giornalismo Ambientale, ho iniziato a lavorare nella comunicazione integrata, occupandomi redazione, ufficio stampa e organizzazione di eventi. Redattrice dal 2006 per varie testate (Rinnovabili.it, Metro, La Repubblica) e giornalista pubblicista dal 2012, sempre più occupo di coordinamento editoriale e gestione web. Cambio cappelli con estrema facilità e sono un'irriducibile ottimista. Maremmana di nascita e di indole, ho vissuto e lavorato a New York per 4 anni, dove ho imparato che se una cosa la riesci a fare lì, allora la puoi fare ovunque.

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