Egitto, Italia e Stati Uniti. Tre paesi che fanno parte della vita e della formazione di Guido Dalbagni, chirurgo oncologo specialista in urologia al Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York.
Di famiglia bolognese, nasce in Egitto dove il padre lavora come architetto e ingegnere. Ritorna ogni estate nella sua Bologna dove tenta di stabilirsi dopo la sua laurea in Medicina all’Università del Cairo. Il nonno materno era nato a New York dove Dalbagni decide di trasferirsi iniziando la sua carriera medica dopo aver realizzato che in Italia non c’era alcun futuro per la ricerca.
In Egitto studia in una scuola francese e impara fluentemente anche l’arabo. Cosmopolita, si sente culturalmente italiano e professionalmente Americano.
“Il sogno Americano non è facile e non é detto che funzioni per tutti. In Italia ci sono ottimi medici ma mancano i fondi e le strutture”.
Professore, lei è chirurgo oncologo specialista in urologia al Memorial Sloan Kettering di New York, uno dei centri più importanti al mondo per la cura e la ricerca oncologica. Di cosa si occupa nello specifico?
“Mi occupo soprattutto di tumori alla vescica curando sia l’aspetto legato alla ricerca che alla chirurgia. In passato avevo a disposizione anche un laboratorio dove mi occupavo di ricerca sui tumori superficiali alla vescica ma anche oggi sto lavorando alla creazione di protocolli dei tumori superficiali affinché non diventino invasivi”.
Lei arriva a New York dall’Egitto, dove è nato, studiato e vissuto fino alla sua laurea. L’Italia è il suo paese. Che cosa rappresentano, l’ Italia, l’Egitto e gli Stati Uniti, nella sua vita?
“La mia famiglia è di origine bolognese, mio nonno paterno è nato a Bologna e mio nonno materno a New York. Mio padre ha lavorato come ingegnere e architetto in Egitto e io ho frequentato le scuole francesi prima di studiare all’università del Cairo. L’Egitto che ho vissuto io era un paese molto europeo dove vivevano molti italiani, francesi, inglesi. Parliamo degli anni precedenti al 1952, prima della rivoluzione. Solo negli anni universitari sono venuto a contatto con la cultura egiziana visto che all’università del Cairo erano pochissimi gli europei che vi studiavano. A Bologna sono tornato dopo la mia laurea con la speranza di rimanervi. Purtroppo è stato difficile e sono andato a New York. Mi sento italiano culturalmente, americano di formazione”.
Come è iniziata la sua esperienza americana. L’America dei suoi inizi era ancora l’America delle grandi opportunità per tutti?
“E’ stato difficile per chi come me veniva da una formazione estera e non aveva frequentato le università americane. Grazie ad una serie di conoscenze mi sono inserito al Cabrini Medical Centre di New York e poi al Memorial Sloan Kettering dove lavoro tutt’ora. Non mi sento di dire che l’America garantisce a tutti grandi opportunità, per molti è stato difficile inserirsi in un settore come quello medico. Occorre di certo anche un po’ di fortuna, come sempre nella vita. E’ più facile fare ricerca in America che lavorare nel campo clinico soprattutto se non si frequentano le università qui”.
Lei ha tentato di rimanere a Bologna ma poi ha detto che non c’erano possibilità all’università. Si sente anche lei un cervello in fuga?
“Non mi piace utilizzare questo termine di cui ormai si abusa troppo. Di fatto, bisogna dire che in Italia ci sono medici validissimi e anche alcune strutture all’avanguardia. Mancano i fondi, le risorse, che in America invece ci sono. Negli Stati Uniti è più facile fare ricerca perché ci sono più soldi destinati a questo settore e ci sono più possibilità di fare clinica perché la tecnologia è molto avanzata. Ammiro molti colleghi italiani che sono riusciti ad affermarsi nel paese e portare avanti la ricerca e la clinica”.
Però in America la sanità è privata. Cosa pensa succederà con l’attuale presidente Donald Trump che aveva deciso di cancellare l’Affordable Care Act voluto da Obama?
“Non so cosa e quanto di fatto cambierà con Trump. Credo che la sanità debba essere più accessibile e dare la possibilità di scegliere fra diverse opzioni”.
New York e la sua città. In che modo sente di appartenere alla Grande Mela?
“Non penso riuscirei a vivere negli Stati Uniti se non a New York. Mi piace la sua dimensione multiculturale, la vita culturale, la sua vivacità. E’ molto europea ma anche molto internazionale”.
Di Bologna invece cosa le manca?
“Torno due volte l’anno ed è una città che mi piace molto. Non c’è alcun dubbio che la qualità della vita in Italia sia di gran lunga migliore”.