Da quando sono partito per gli Stati Uniti, quasi 30 anni fa, sono perseguitato da questa immagine tra il comico e il grottesco del cervello in fuga, a metà strada, nella mia immaginazione, tra le galline in fuga del cartone animato e i film di zombie di serie C con parti del corpo che vanno in giro indipendentemente dal resto.
L’espressione non mi è mai piaciuta soprattutto perché non mi sono mai considerato un ‘cervello’, ma assai più modestamente, qualcuno che aveva avuto la fortuna di trovare il modo di essere pagato per studiare la letteratura, la storia, la teoria politica, le lingue e tutte le altre discipline come la storia dell’arte, del cinema e della musica che danno senso e rallegrano le nostre esistenze, mettendoci a confronto con la bellezza e gli aspetti più esaltanti della creatività umana. Ho sempre pensato, con il senso di inferiorità che la cultura dominante impone a noi umanisti, che i cervelli fossero quelli degli altri: dei colleghi dottorandi e giovani professori delle discipline scientifiche, tecniche ed economiche. Parlando con loro, ho scoperto che anch’essi però erano infastiditi, come me, da questa definizione; tranne una biologa che si presentava, ironicamente, come “cervella in fuga”, addirittura declinando al femminile l’espressione.
In questi 30 anni l’emigrazione intellettuale dall’Italia è aumentata e i dati più recenti sono preoccupanti perché vedono il nostro paese sempre meno competitivo nel trattenere e attirare giovani qualificati e competenti che si sono formati con disciplina, fatica e sacrifici nelle università italiane e in quelle di tanti altri paesi del mondo. Ogni tanto l’epopea tranquilla e solitamente discreta di noi clerici vagantes del ventunesimo secolo sale agli onori della cronaca per casi eclatanti, come la vicenda di Sabina Berretta, la ricercatrice catanese che in Italia non aveva superato il concorso da bidella nella facoltà in cui aveva studiato e che ad Harvard dirige un centro di ricerca neurologica con 17 scienziati da coordinare.
Ne ho conosciuti tanti come Sabina in questi anni: dai medici e biologi dei miei anni di dottorato a Stanford agli economisti di New York University, l’università dove insegno adesso e nella quale per la terza volta consecutiva il preside del dipartimento di economia è proprio un italiano. Nessuno di noi era in fuga; per fortuna sono lontani i tempi in cui alcuni nostri connazionali (loro sì geni veri) come Enrico Fermi furono costretti a lasciare il nostro paese per le persecuzioni antiebraiche; nel caso di Fermi, l’aver sposato una donna ebrea fu ragione sufficiente per rendergli la ricerca e la vita impossibile in Italia. Ma non possiamo negare che le condizioni di corruzione endemica di tanta parte del nostro sistema universitario in cui familismo, nepotismo e clientelismo sembrano essere spesso gli unici criteri di selezione del personale, abbiano, almeno in parte, influito sulla nostra scelta di lasciare l’Italia. Ma visto che le lamentele sterili non mi piacciono lascio alla vostra riflessione una considerazione e una proposta.
La riflessione. Tra tutti i colleghi italiani di tutte le discipline che ho incontrato in questi anni negli USA e in altre parti del mondo (e sono centinaia) nessuno ha mai nemmeno lontanamente ventilato l’idea che noi che siamo partiti siamo migliori di quelli che sono rimasti. Siamo tutti convinti che in Italia, nonostante la corruzione a cui ho fatto cenno, ci siano comunque colleghi validissimi che stimiamo ed ammiriamo proprio perché rimanendo in patria, oltre che studiare e insegnare, devono quotidianamente navigare un mare insidiosissimo, dando prova di una determinazione quasi eroica. Il confronto fra chi sta e chi parte l’ha fatto, in maniera assai infelice un paio di mesi fa il Ministro Poletti. Non ci appartiene e non ci interessa.
La proposta semplice semplice l’ho fatta agli ultimi Ministri italiani dell’Università e della Ricerca che sono passati da Casa Zerilli negli ultimi anni. Si tratterebbe di inserire una regola che negli USA è così ovvia e banale che non è nemmeno scritta ed impedisce di fare due passaggi universitari consecutivi nello stesso ateneo: non si può fare il dottorato dove si è conseguita la laurea, non si può diventare ricercatori dove ci si è addottorati e via di seguito. Non sarebbe la panacea, e forse il ‘genio’ italiano troverebbe il modo di aggirare questa basilare regola meritocratica, ma sarebbe un inizio.
Sì, perché l’Italia non deve far ‘rientrare i cervelli in fuga’, ma approfittando della crisi della meritocrazia nelle università americane, causata della miope politica xenofoba dell’amministrazione Trump, dovrebbe avere uno scatto di orgoglio per ripulirsi delle zavorre clientelari ed investire per diventare un polo di attrazione per i più brillanti talenti del globo, e non solo per gli italiani in trasferta. Così erano le università di Bologna e Salerno nel Medio Evo, così erano le corti di Firenze, Mantova e Urbino nel Rinascimento. O torniamo ad essere così o siamo destinati a sparire dall’atlante culturale e scientifico del mondo contemporaneo.