Con quello sguardo un po’ così, quell’espressione un po’ così. E quei capelli poi, altro che chioma candida da nonno della Patria, quello è un marchio di garanzia, un brand assoluto che basta un accenno per riconoscerlo e sugellare scenari da vecchia guardia che non cede il passo, e se lo cede lo fa solo per un attimo, che poi subito se lo ripiglia, e torna in prima linea, più inossidabile, coriacea, immutabile che mai.
E’ bastata una manciata di settimane a Sergio Mattarella, dodicesimo Presidente della Repubblica e primo siciliano a salire sul Colle, per scalare le vette dei sondaggi di popolarità e gradimento, che – nel caso della classe politica – vengono riassunti nel termine “fiducia”. Il 66% degli italiani – secondo i rilevamenti Ixé – si fida del neocapo dello Stato. Che, per la verità, a parte un discorso scabro ma stentoreo alle Camere, in occasione del solenne giuramento, non pare abbia fatto granché. Fatta eccezione per un paio di beau gestes, di quelli assai apprezzati dal popolo occhiuto, che lo hanno portato ad un passo dalla beatificazione. Ha nominato segretario generale il fidato grand commis Ugo Zampetti, a costo zero. Ma non chiamatela sobrietà, è solo un problema di retribuzioni pubbliche che per legge non possono essere cumulate a pensioni superiori a 240 mila euro lordi l’anno. E quella di Zampetti è ben oltre il doppio.
Poi, giusto per buttare un occhio alle nostre cose siciliane, che Mattarella avrà certo in gran considerazione, l’austero inquilino del Quirinale ha deciso di optare per un austero volo di linea Roma-Palermo per passare il week-end nella sua città. E qui c’è stata la ola: un tripudio di lodi, di commenti entusiasti per un potente che finalmente si mette nei panni del comune mortale. Una mossa azzeccatissima, in tempi di vacche magre, perché oggi per piacere alla gente basta tirare un po’ la cinghia, e niente risulta più eroico, più magnanimo, più salvifico di una ben piazzata, seppur modestissima, sforbiciata di spending review.
E a proposito di sforbiciate, veniamo al fatto davvero succulento, al retroscena ghiotto che non ha scaldato l’animo delle plebi, ma che forse può chiarire un paio di dubbi sul settennato che verrà, e sullo stile quirinalizio che il placido Sergio intende adottare. Di nuovo i capelli, quel veliero bianco che inalbera come una rassicurante promessa di bonaccia in tempi di burrasca. Mattarella ha un barbiere storico a Palermo, lo stimato signor Franco Alfonso, che condivide con altri potentoni ed ex potentoni locali, della prima e seconda Repubblica, da Ciccio Musotto a Totò Cuffaro, da Vito Riggio a Renato Schifani.
Alfonso è più di un parrucchiere per signori, è un artista del baffo, un custode di memorie e costumi tricologici, ma anche un gentiluomo non immune alle lusinghe della vanità che – accolte le confessioni dell’illustre cliente su una certa insoddisfazione in merito al servizio reso al suo presidenziale scalpo dal barbiere di Roma – ha pensato bene di comunicarlo ai giornalisti, che gli chiedevano conto del suo pomeriggio a casa Mattarella, solerte Figaro a domicilio tra pettini, schiume e lozioni profumate.
Apriti cielo. La disfida dei barbieri – quello di fiducia, a Palermo, e quello acquisito, a Roma – esplode come una bomba. Tutti cercano Alfonso che, per la verità, tra libri e interviste, è sempre stato un simpatico chiacchierone mediatico. Ma il Qurinale è il Quirinale, e il circo della spuntatura deve finire. Interviene lo staff del Presidente, che richiama Alfonso all’ordine: basta con le dichiarazioni, anzi, meglio fare subito una precisazione, per salvare l’onore del barbiere romano, che non ha gradito per niente. Detto fatto.
In fondo si è trattato solo di un incidente di percorso: può capitare uno scivolone, se la cenerentola Sicilia si ritrova al gran ballo del Colle con il suo elegante e pettinatissimo principe a fare da padrone di casa. E passi pure per quell’infausta battuta di Matteo Salvini, refrattario al protocollo degli incontri quirinalizi: “Che ci vado a fare da Mattarella, gli chiedo il numero del barbiere ?”.
Di quale dei due non è dato saperlo.