Le chiamano prestazioni “performanti”, che nel linguaggio grezzo del comune cittadino – quello tempestato da decine di telefonate al mese, non sempre coronati da risposte concilianti e atteggiamenti solidali – possono essere tradotte con un più prosaico “lavora e tira a campare”. Perché non c’è anima viva che non sappia come funziona nei call center, con qualche variazione da una società all’altra. Telefoni incessantemente ad elenchi di sconosciuti – cuffia in testa e tanta santa pazienza – per proporre l’offerta del momento. E inevitabilmente c’è uno standard da rispettare, una soglia minima di contratti da chiudere ogni settimana che garantiscono la sopravvivenza e quindi il lavoro, per poche centinaia di euro al mese.
La spada di Damocle è lì, e nel 2015 – malgrado la crisi, la precarietà dilagante, la disoccupazione che frantuma ogni speranza, la necessità di accontentarsi che diventa la virtù di non negarsi una minuscola promessa sgrammaticata di futuro – sembra francamente di essere tornati indietro di secoli.
Stare in un call center è duro, ma ci sono migliaia e migliaia di persone, ragazzi e non solo, che fanno bene il loro lavoro, che sorridono quando vorrebbero bestemmiare, che vanno avanti e non mollano. Non sono alienati, sono gente per bene, che forse non ha letto Marx e Stuart Mill, ma ha dignità, capacità e talento per fare di meglio. Se solo qualcosa di meglio esistesse.
Il 25 febbraio una rappresentanza dei dipendenti del gruppo Almaviva, impegnati in una delicata vertenza tra Palermo e Catania, ha dato vita ad un piccolo, pacifico picchetto nel capoluogo per protestare contro il rischio licenziamento di 1500 operatori del call center – su un totale di 6000 dipendenti – che perderanno il posto se non si concluderà positivamente la commessa per i servizi della Wind. La manifestazione si è ripetuta il 28 febbraio davanti i cancelli dell’ex fabbrica Sandron, sempre a Palermo, in occasione dell’inaugurazione della ‘Leopalda siciliana’ voluta dal sottosegretario all’Istruzione, Davide Faraone, ‘capo’ dei renziani siciliani.
Il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, ha assicurato l’impegno per tutelare i lavoratori a rischio; il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Graziano Delrio, ha incontrato i rappresentanti delle sigle sindacali e raccolto la richiesta di riattivare il tavolo di trattative al Ministero dello Sviluppo economico, per affrontare la vertenza. Delrio ha detto di non sapere nulla di tutto quello che sta succedendo in Sicilia nel mondo dei call center.
I delegati hanno riferito poi che, in attesa di una risposta, il Governo potrebbe inviare degli ispettori ai committenti dei servizi di Almaviva, e mettere in atto un sistema di sanzioni per gli imprenditori che hanno delocalizzato il traffico all’estero.
Posti di lavoro che evaporano sotto il peso di una non meglio identificata crisi economica, alibi perfetto per ogni stagione del malcontento; cassa integrazione come sala d’aspetto prima di precipitare nell’oblio della disoccupazione e il Jobs Act, che – secondo i rappresentanti dei lavoratori del call center – taglia le gambe ad ogni prospettiva di stabilizzazione pe i lavoratori a progetto, i cosiddetti Lap.
Precarietà della precarietà. Precarietà al quadrato. Perché non basta più accettare l’aberrazione di un lavoro che non gratifica, non soddisfa, non dà autonomia economica, che procrastina l’avvenire e lo mette in gelatina in vista di tempi migliori, sempre più lontani. Anche con tutta la buona volontà, stringere i denti e tirare la cinghia sembra essere diventato inutile, superfluo, quasi una beffa.
Intanto la disperazione aumenta. E si presenta con nuovi soggetti sociali. Li chiamano Neet – acronimo amaro di “not in Education, Employment or Training”: sono i giovani tra i 15 e i 19 anni che non lavorano, non studiano, non sono impegnati in alcuna attività formativa. Più donne che uomini, più al Sud che al Nord. Nel 2010 erano il 22.1%, nel 2012 il 23.9, nel 2013 il 26%. La media europea è del 15.3%, peggio solo la Bulgaria e la Lettonia.
Anche la speranza, ormai, è un mestiere.