Marina Spada, tra le più note e apprezzate registe del cinema italiano, si trova negli USA per presentare i suoi lavori in una serie di incontri che, dal Texas alle università Harvard e UPenn, si concluderanno il prossimo 26 febbraio a New York City. In questa data si terrà infatti alla Casa Italiana Zerilli-Marimò NYU un evento (A Stroll through the Urban Void. Women and the City in Maria Spada’s Cinema) promosso dal dipartimento di Italian Studies di NYU e di Comparative Literature di CUNY, in cui interverranno, a conversazione con la regista, Laura di Bianco (Hunter College), Valeria Castelli (NYU), Rebecca Falkoff (NYU), Giancarlo Lombardi (CUNY & College of Staten Island) e Francesca Parmeggiani (Fordham University).
Ad Harvard, dove è stato proiettato Poesia che mi guardi (2009), il film tributo alla poetessa milanese Antonia Pozzi, ho avuto la fortuna di discutere con Marina Spada alcuni momenti del suo percorso cinematografico.
Dal primo lungometraggio Forza cani (2002) ai successivi Come l’ombra (2006; miglior regia al Mar Del Plata International Film Festival), Poesia che mi guardi e all’ultimo lavoro Il mio domani (2011), emergono due fili rossi che sembrano legare tutti i tuoi film: Milano e la poesia.
“La poesia è un mio grande amore, ma fortunatamente non sono a mia volta poeta (Croce diceva che chi fa poesia dopo i 18 anni è un vero poeta o un vero cretino). Essere un poeta significa vivere sull’orlo di un abisso come si vede, ad esempio, dalla vita di Pozzi in Poesia che mi guardi. Il mio amore per la poesia è comunque evidente, basti pensare che tutti i titoli dei miei film sono tratti da componimenti poetici. Questa passione nasce in realtà, come spesso nei giovanissimi, dalla musica. Nel mio caso da un cantautore come Bob Dylan che, quando avevo 13-14 anni, riusciva a esprimere nelle sue canzoni ciò che sentivo dentro. Mi interrogavo sui miei sentimenti e trovavo le parole per esprimerli nei suoi versi. Da lì il passo è stato breve e sono arrivata alla poesia moderna e contemporanea. Ho iniziato a esplorare il campo della poesia propriamente detta, e in particolare ho scoperto l’universo della poesia femminile: Anne Sexton, Silvia Plath, Emily Dickinson, arrivando ad Antonia Pozzi o altri personaggi della cultura del Novecento quali Frida Kahlo, Tamara de Lempicka, Tina Modotti, Rosa Luxembourg e Simone de Beauvoir. I miei film riflettono questo amore. In Poesia che mi guardi ho lasciato talvolta alla poesia stessa la possibilità di esprimersi. Il film non voleva essere un tributo a una persona morta, ma un omaggio alla sua vita attraverso il quale ribadire oggi la necessità della poesia.
Altro amore viscerale è quello che mi lega a Milano, a livello storico e personale. Sento una connessione fortissima con il territorio, con i luoghi della città che sono anche i luoghi della mia storia, della mia famiglia. Come ha scritto Alda Merini, 'lascerei Milano solo per il paradiso'. È una questioni di radici. Potrei anche pensare oggi a un film fuori Milano ma questo finora è stato un passaggio obbligato”.
Nella costruzione dello scenario urbano milanese dei tuoi film è evidente la lezione del fotografo Gabriele Basilico.
Gabriele (morto nel febbraio 2013, nda) è stato un amico e un collaboratore eccezionale da cui ho imparato moltissimo: le sue istantanee, il suo occhio su Milano, hanno sicuramente influito sul mio lavoro. È una grande perdita non averlo ancora qui a cogliere le trasformazioni della nostra città in questo periodo di grandi cambiamenti urbani a ridosso dell’Expo 2015. Come nelle fotografie di Basilico, anche io ho cercato nei miei film di documentare la città e i suoi mutamenti. Ne Il mio domani, ad esempio, si scorgono i cantieri del quartiere Isola-Garibaldi a testimonianza del mutamento costante che interessa il paesaggio urbano. La periferia è ritratta in Come l’ombra, mentre in Poesia che mi guardi spiccano nella loro superba bellezza le facciate dei quartieri bene in cui visse Antonia Pozzi. Milano non è solo la sfondo dei miei film, ma ne è uno dei protagonisti. Nei miei lavori testimonio la realtà, il presente della città, sulla scia di capolavori del cinema quali Il posto di Ermanno Olmi con le sue inquadrature di piazza San Babila con i cantieri per la prima linea della metropolitana milanese.
Qual è il tuo rapporto con gli USA? Hai in mente progetti che interessano anche il nuovo mondo?
Ero già stata molte volte negli Stati Uniti anche prima di venire a presentare il mio lavoro in questi ultimi anni; in questa occasione ho avuto modo di conoscere nuove realtà, quali Houston, Austin e College Station in Texas, ho ritrovato di nuovo la New York del mio immaginario, nutritosi della musica di Bob Dylan, di Allen Ginsberg e della Beat Generation. Non a caso, nel 1995 ho dedicato un documentario alla Pivano (Fernanda Pivano, c'era una volta l'America, ndr) che tanto si è impegnata nel diffondere in Italia questa cultura e letteratura americana.
Negli Stati Uniti si può produrre un cinema di qualità e, avendone la possibilità, sarei felice di iniziare qui alcuni progetti. Penso ad esempio a un lavoro su una figura del Novecento di grande spessore anche in America quale Elvira Notari, prima donna regista nel cinema italiano. In questi giorni ho avuto modo di incontrare molti italiani e americani entusiasti del mio lavoro, attenti agli aspetti più emozionali della mia ricerca cinematografica. Gli Stati Uniti potrebbero offrire un terreno di lavoro molto ricco e adatto al mio cinema.
Come si lavora oggi in Italia?
Stiamo affrontando un periodo difficile, nel cinema come in molti altri settori. La voglia di lavorare e mettersi in gioco con nuovi progetti si scontra con diverse complicazioni, in primo luogo di tipo economico ma anche di gusto culturale. Molti attori inoltre, talvolta di grande levatura (come nel caso della bravissima Claudia Gerini, protagonista di Il mio domani), sono usati nel cinema italiano per ruoli fissi e degradanti, costretti come maschere della commedia dell’arte. Tipi ricorrenti attorno ai quali ruotano le stesse trite dinamiche. Allo stesso tempo sono di certo felice che registi quali Paolo Sorrentino e Paolo Virzì siano riusciti a oltrepassare le frontiere nazionali, dando visibilità al cinema italiano.
Il cinema più sperimentale fatica però a trovare il giusto spazio, da una parte soffocato da finanziamenti minimi e dall’altra schiacciato dalle produzioni maggiori che tendono a rivolgersi a progetti meno rischiosi. Con Poesia che mi guardi ho avuto non poche difficoltà inizialmente, pur con il sostegno incredibile della produttrice Renata Tardani. Il film continua ad avere oggi un grande successo, come dimostrano gli incontri di questi giorni ad Harvard, UPenn e NYC, ma la storia e il ritratto di una poetessa al tempo praticamente ignota ai più non rientrava di certo nei canoni del cinema tradizionale. Nel lavoro di preparazione al film, durato tre anni, ho sentito il dovere di dare voce a questa grande figura (oltre alle sue poesie, bellissime sono anche le fotografie di Pozzi inserite nel film). Ho fatto il film su Antonia per metterla in luce e collocarla nella storia della letteratura italiana. Poesia che mi guardi nasce da una urgenza, da un forte senso di responsabilità: non mi interessava realizzare un film di successo, ma riscattare questa ragazza sottrattasi alla vita troppo presto (Pozzi muore suicida a 26 anni, ndr). In Italia purtroppo non tutti hanno saputo cogliere e supportare questa urgenza, tanto più di fronte a un film privo di diretti modelli di riferimento.
A pochi giorni dalla cerimonia degli Oscar cosa pensi dei film scelti dall'Academy?
Non ho ancora avuto modo di guardare tutti i film in lizza, ma ho trovato Boyhood un vero splendore, così come ottima l’interpretazione della bravissima Julianne Moore in Still Alice. Tra le pellicole straniere è straordinario il film polacco Ida, diretto da Paweł Pawlikowski.