Tra Barack Obama e Papa Francesco, incontratisi giovedì a Roma, c’è stata una sintonia perfetta, com’era prevedibile. Ad accomunarli la lotta contro la povertà e la disuguaglianza economica, a dividerli, se mai, i matrimoni gay e la non ancora risolta questione della copertura assicurativa di anticoncezionali anche per istituti religiosi prevista dall’Obamacare, temi particolarmente cari ai vescovi americani. Ma questi ultimi non hanno creato tensioni come invece era successo nel 2009 durante l’incontro del presidente USA con Papa Benedetto XVI, ferreo paladino della moralità.
Non che Francesco non lo sia, ma come primo pontefice proveniente dal Nuovo Mondo la sua attenzione è rivolta prima di tutto ai quei problemi sociali ben lungi dall’essere risolti anche nel paese più potente di tutti, gli Stati Uniti. Anzi, qui il divario tra ricchi e poveri è in continua crescita. Eppure la leadership cattolica americana sembra non dargli la dovuta importanza. Il pontefice sta ridisegnando anche la loro agenda, ma a che velocità? Non quella sperata. Le ragioni? Principalmente politiche.
Eppure, i numeri sulla povertà in America parlano chiaro. Sono sempre di più coloro che si rivolgono a rifugi per homeless e alle food bank, i centri che distribuiscono cibo: da novembre al 1 gennaio alla St. Edward Food Pantry di Staten Island, il numero delle persone registrate è aumentato di 250 unità, in altri due centri del Bronx il numero di bisognosi è raddoppiato. E la situazione è precipitata proprio durante uno degli inverni più rigidi degli ultimi anni. Nella sola New York la quantità di homeless che dormono nei centri di accoglienza è cresciuta del 7% fino a raggiungere a gennaio la quota record degli ultimi anni di 53.615 persone, fanno sapere dalla Coalition for the homeless. Anche il numero dei bambini nei centri è in aumento: più 8% in un anno, per un totale di 22.712 minori senza tetto.
Molti centri sono gestiti da associazioni cattoliche che danno assistenza da anni a tutti, indipendentemente dal credo. Ma spesso sono loro stessi a sentirsi trascurati dalle alte sfere della Chiesa USA. Certo, il messaggio di Papa Francesco non è stato ignorato: lo scorso settembre, in occasione del Labor Day, il vescovo Stephen E. Blaire di Stockon, California, presidente della Commissione per la Giustizia domestica e lo sviluppo umano della Conferenza episcopale, in un comunicato ha riportato le parole del Papa sul lavoro come diritto di tutti e forma di dignità umana e ha posto l’attenzione sul numero sempre più alto di disoccupati e sul calo dei salari. E ancor prima, in agosto, il vescovo Robert McElroy nel suo blog sul sito dell’USCCB (United States Conference Catholic Bishops) aveva elencato le cinque più significative frasi fino ad allora pronunciate dal pontefice su povertà e disuguaglianza economica e aveva aggiunto tra le altre cose: “Non sono solo le misure politiche che ignorano i poveri, ma anche le nostre abitudini”.
E infatti quest’ultime sono le più dure a morire. Pochi mesi dopo il post di McElroy, a novembre, in occasione dell’annuale conferenza episcopale a Baltimora, si era discusso ancora una volta di riforma sanitaria, aborto e matrimoni gay.
Eppure fino agli anni Ottanta non sono mancate le voci forti e progressiste anche tra i vescovi. Quando e perché si sono fatti più conservatori? “In passato, fino agli Anni Quaranta, si sono preoccupati di temi come la povertà perché a loro volta venivano da famiglie povere di immigrati – spiega il gesuita Thomas Reese – Erano vicini ai sindacati perché avevano fratelli e sorelle che erano parte della classe operaia. Ma dopo la Seconda Guerra Mondiale molti più cattolici, soprattutto bianchi, incominciarono ad andare all’università e diventarono parte della classe media”. Quindi prima di tutto c’è stato un significativo cambiamento demografico. Poi, secondo Reese, ha avuto molto peso anche la sentenza Roe v. Wade della Corte Suprema sull’aborto che ha fatto suonare un campanello d’allarme per i vescovi. In questa battaglia si schierarono anche i repubblicani che vi vedevano un’opportunità per catturare il voto dei cattolici. L’aborto ha cambiato la politica dei vescovi, poi sono arrivati i matrimoni gay e gli anticoncezionali sotto l’Obamacare.
A detta del gesuita se oggi i vescovi si occupassero di più di poveri e di giustizia economica, ciò significherebbe per loro un inevitabilmente spostamento verso sinistra ma non vogliono perdere il sostegno dei repubblicani sulla battaglia dei temi morali. Da qui lo scetticismo di Reese su un cambio d’agenda dei vescovi.
Non mancano però segni incoraggianti. Il 18 marzo l’arcidiocesi di Baltimora ha organizzato un simposio alla Loyola University intitolato The Francis Factor e alcuni vescovi, soprattutto gli ispanici che hanno a cuore le sorti degli immigrati, iniziano a chiedersi come si può influenzare la politica per essere di maggior sostegno ai poveri. Il banco di prova sarà comunque la prossima conferenza episcopale in autunno.