Pescara simbolo di un’Italia che non cambierà mai? La storia forse l’avrete letta. La squadra di calcio della città abruzzese, dopo molti anni nel purgatorio della serie B, ha ottenuto la promozione in A. Tifosi, giustamente, eccitati e caccia agli abbonamenti per la nuova stagione ormai all’avvio. Ma sorge il problema. La società decide, anche visti i tempi di grama austerità, che non darà più l’ingresso finora concesso gratuitamente – chissà poi perché – ai consiglieri comunali, agli assessori e ai soliti amici vari: 150 in tutto i biglietti omaggio. Scoppia il finimondo. I politici locali si sentono offesi: i soldi, viste le loro retribuzioni, li avrebbero ma loro vivono la scelta economica (e, se permettete, anche morale) dei dirigenti del club come un affronto personale. Al persistere del diniego, “sbracano” e danno vita a una protesta bipartisan, maggioranza e opposizione insieme per una volta nella difesa di vecchi e diseducativi privilegi. Senza paura di essere sommersi dal ridicolo danno il peggio di se stessi: “Noi siamo pubblici ufficiali e allo stadio andiamo per controllare che la situazione sia in ordine, che ci siano le condizioni di sicurezza!”. L’eco delle risate che li ha seppelliti non li tocca. Non si danno per vinti nemmeno davanti all’ironica obiezione della stampa cittadina che ricorda come, per esempio, nessuno di questi “controllori” si sia mai accorto che lo stadio Adriatico-Cornacchia, così si chiama l’arena pescarese, non sia a norma per quanto riguarda l’accesso dei disabili. Eppure, questo sì, sarebbe stato un loro compito. Niente. I Vip (sigla che in questo caso credo stia per: Veramente Insolenti Protervi) insistono e passano dall’arroganza alle minacce: “E allora la società deve pagare di più per l’uso del terreno comunale”. Quella dei biglietti omaggio è una vecchia piaga italica. Da cui i signori dei palazzi e palazzetti non vogliono guarire, incuranti dell’indignazione della gente. A Pescara come nel resto d’Italia.
FUGA DEI CERVELLI. Se ne parla da decenni e, in fondo, ancora non si è capito se sia un danno per l’Italia. Puntualmente i giornali tornano a lanciare l’allarme. Qualche giorno fa La Stampa ha tirato fuori l’ennesimo calcolo: “Un miliardo in fuga con i cervelli”, a tanto ammonterebbe il capitale in euro generato dai 243 brevetti dei migliori scienziati italiani all’estero. Ancora più nere le previsioni: “Tra venti anni potremmo arrivare a dissipare tre miliardi”. Non dubito che il serio quotidiano torinese abbia fatto bene i calcoli. Mi domando soltanto se, nell’era della globalizzazione, dei confini nazionali sempre più evanescenti, delle nuove aggregazioni internazionali e dei mercati sempre più liberi e aperti non ci sia invece quasi da compiacersi per il successo che il made in Italy della materia grigia riscuote fuori d’Italia. Mi convince, per esempio, quanto detto da una giovane 26enne che, via skype, ha parlato al recente meeting di Comunione e Liberazione di Rimini, ottenendo le attenzioni dello stesso presidente del Consiglio: Mario Monti, concluso il suo intervento, si è fermato interessato proprio davanti al monitor dove stava parlando Cecilia Cinquina. La ragazza, che da noi non trovava lavoro, se ne è andata in Cina, dove è impiegata in un’azienda che vende pannelli solari proprio all’Italia (qui, un inciso: c’è da chiedersi perché il paese per eccellenza del sole, cioè l’Italia, debba andare a fare shopping di pannelli così lontano; ma questa è un’altra storia). “Non mi sento un cervello in fuga” ha spiegato Cecilia. “Semmai mi sento un pezzo d’Italia all’estero”. A me sembra una giusta filosofia. Ovviamente capisco che posso benissimo essere contraddetta, che in molti mi potrebbero dire con valide ragioni che sarebbe meglio se questi “cervelli” nostrani li mettessimo a frutto prima nell’interesse dell’Italia e poi, semmai, di quello del resto del mondo. Concordo. Ma visto che generazioni di classi politiche del Belpaese hanno mostrato disinteresse e hanno ormai creato una situazione tale per cui le prospettive di lavoro e di sviluppo per i giovani, soprattutto quelli laureati ma non solo, sono pari quasi a zero, allora tanto vale fare buon viso a cattivo gioco. E inorgoglirsi per i bei risultati conseguiti dai nostri “expat”.