Gli ultimi testimoni e protagonisti di quella lotta di Liberazione detta Resistenza, da cui nacque l’Italia democratica con una Costituzione che resta un modello, anche quelli più giovani, che non avevano vent’anni alla fine della guerra, stanno inesorabilmente sparendo e con loro la memoria viva, il racconto diretto di cosa fu quell’esperienza e perché fecero quella scelta, sulla base di bisogni e ideali che appaiono di grande attualità in questo periodo di grave crisi, di assenza di valori, di bisogno di tornare a sperare e ricostruire.
Esistono già volumi ormai classici che propongono quei temi, dalle "Lettere dei condannati a morte della Resistenza europea" a quelle "della Resistenza italiana", di cui Alberto Moravia, nel primo numero di "Patria", il periodico del’Anpi, l’Associazione nazionale partigiani italiani, uscito giusto 60 anni fa, scriveva che sarebbero stati essenziali per capire la nostra storia.
In occasione di questo 25 aprile ecco che Einaudi pubblica “Io sono l’ultimo” di AA.VV., una raccolta di lettere dei partigiani italiani, a cura di Stefano Faure, Andrea Liparoto e Giacomo Papi, nata proprio perché tante storie esemplari tragiche e meravigliose non andassero perse (pp. 330, Euro 18,00).
Non sono infatti lettere d’epoca, tirate fuori dai cassetti, ma lettere che i partigiani ancora vivi oggi hanno scritto appositamente per questo libro, sapendo che i lettori saranno in maggioranza giovani che potranno scoprire cosa significò quella lotta. La forza di queste lettere non è tanto nelle avventure, magari orribili, nelle vicende personali e generali, che raccontano, ma nel loro essere ancora umanamente vive, tanto da coinvolgere il lettore, perché oramai quel che più può convincere e far capire non sono le ricostruzioni e rievocazioni ma la trasmissione dei sentimenti di allora ai ragazzi di oggi, di cosa sentirono a quel tempo i loro coetanei, che la libertà dovettero volerla e conquistarsela, spesso a prezzo di grandi sacrifici, quando non della vita, combattendo il nazifascismo, quel regime che aveva tentato di omologarli e plasmarli secondo le proprie necessità sin dalla culla.
Sono testimonianze, oggi più necessarie che utili, come esempio che, se si riesce a pensare con la propria testa, ci si può costruire un futuro diverso.
"A unire queste lettere – annota Papi nell’introduzione – è la coscienza di vivere insieme, il ricordo di essersi concepiti come organismo collettivo, prima che come individui", arrivando, come Vittorio Deangeli nella sua lettera, ad affermare: "Allora si pensava: quando avremmo vinto, avremmo vinto tutti. Non solo noi, ma anche i nostri avversari".
“Sorprende che questa memoria collettiva – prosegue Papi – che non ha estinto l’amore, abbia invece consumato l’odio per il nemico…. Perfino di fronte all’invadenza e i successi indubbi del revisionismo, i vecchi partigiani più che rabbia sembrano provare malinconia", sapendo che la guerra è sempre una brutta cosa, la violenza orribile e che i morti sono tutti eguali: "E chi ha mai detto il contrario? Ma da vivi: era da vivi che si era diversi", come stigmatizza con estrema chiarezza nella sua lettera Ferdinando De Leoni.
A questo punto bisognerebbe andare avanti a citazioni, e non mancherebbero le sorprese, tanta è la mancanza di retorica, la serenità dello sguardo, la voglia di capire, la forza sempre viva del sentire di queste 128 persone, persone normali, le cui lettere sono state scelte tra le oltre mille arrivate dopo l’appello dell’Anpi, ma ognuno potrà scoprire da solo questo piccolo tesoro in cui si fondono storia e umanità.