Tra le conseguenze della pandemia, spicca l’esaltazione virtuosa dei piccoli borghi. È nata una retorica, persino un’ideologia, incentrata sull’elogio di questa dimensione. In qualche modo è cambiata, o sta mutando, la percezione degli ambienti più piccoli, e si tende a riscoprirne la convenienza al di là degli svantaggi.
Possono rappresentare allora una soluzione anche per il dopo Covid? Cosa rimane di tanto fervore ora che il virus ha perso, grazie alle vaccinazioni e ai comportamenti corretti, la sua carica più violenta?

Il paesaggio è cambiato con il Covid. Il borgo, lontano dalla città, è tornato utile durante il picco della pandemia, quando bisognava osservare regole rigide che limitavano i movimenti, e il lavoro (se rimasto) poteva essere svolto solo da remoto. Se si doveva stare chiusi in casa e lavorare da lì, piuttosto che l’appartamento piccolo in un anonimo palazzone di città, cosa c’era di meglio del contatto con la natura?
Immersa nel verde, magari con un giardino adiacente, una casetta di paese offriva un conforto insperato, magari permetteva qualche passo fuori, e i bambini stavano meglio, avvertivano meno il cambiamento. Il lockdown era più umano e tollerabile. La distanza dalla vivacità cittadina meno sofferta e negativa.

Ora non è affatto venuta meno quella tendenza a spostarsi altrove e lo si apprezza su più versanti. Il turismo innanzi tutto, con l’incessante proposta di vacanze di prossimità alla scoperta dei luoghi trascurati in passato. Erano troppo a portata di mano per incuriosire. E poi i tanti progetti legati alla dimensione quotidiana del vivere e alla costruzione del futuro: l’abitazione per tutto l’anno, l’attività lavorativa da riprendere in forme nuove. Un’eco di queste problematiche la si trova, tra le righe, nel dibattito culturale che ha accompagnato le ultime elezioni locali. Dovrebbe rientrare tra gli impegni prioritari degli amministratori vecchi e nuovi.
Non si tratta di un tema nuovo. Solo è balzato in prima linea per effetto del Covid. Da sempre i borghi hanno rappresentato un richiamo di grande suggestione. C’è sempre stata un po’ di nostalgia per il tempo antico, mentre struggente nelle grandi città è il desiderio di ritrovare abitudini smarrite. Però è indiscutibile che, soprattutto in Italia, i piccoli centri siano luoghi unici. Per storia, tradizione, stili di vita.

Il tessuto urbanistico ha caratteri che riesce difficile trovare altrove. L’architettura stratificata nel tempo ha creato “quinte” teatrali di prestigio; i piccoli numeri hanno stimolato le relazioni umane; la dedizione all’artigianato e al lavoro esperto fatto a mano ha dato qualità alla vita economica. Lo stridore delle diseguaglianze sembra meno assordante.
I centri storici delle grandi città sono incomparabili per maestosità e ricchezza. Però sono invasi da frenesia e caos, perfino violentati nella loro identità. Il consumismo li ha ridotti a vetrine estranee alle necessità di chi vi abita. Finiscono anche per esprimere, a prescindere dal luogo comune delle zone ZTL, per ricchi che si compiacciono del loro benessere, la contraddizione provocata dal privilegio estremo, l’indecente imbellettamento incapace di nascondere diseguaglianze e povertà.

Vuoi mettere? Nei piccoli centri, la dimensione ridotta e la lentezza del vivere hanno un valore. È più diffusa la rete accogliente della solidarietà spicciola, dell’aiuto reciproco, del porta a porta. «Non sei mai solo quando hai un paese», scriveva Cesare Pavese. Persino fattori come l’isolamento e le difficoltà di accesso non sembrano così negativi. L’insieme di ciò che non c’è si traduce in pregio, per chi nelle città cerca quiete e umanità.
Il lessico odierno che raccomanda i piccoli centri e li propone come avventura per il domani ha un forte colore romantico, proprio di chi è abituato a guardarli da lontano perché immerso fino al collo nel caleidoscopio cittadino. C’è un’ambiguità di fondo nell’elogio dei piccoli borghi che nasce dall’ignoranza delle trasformazioni sociali che essi hanno subìto nel tempo in maniera inesorabile.

Ripensare a quei contesti è giusto e persino doveroso. Le città sono in debito anche con le loro periferie, che non sono solo quelle urbane vicine al centro. Ci sono anche altre, ugualmente dimenticate: i territori lontani, le case e persone sparse ovunque. Da quei luoghi, la città ha tratto energie, volontà, braccia e speranze, impiegandole al suo interno non sempre garantendo un’equa distribuzione dei benefici. Verso il mondo circostante è prevalso l’egoismo ed il disinteresse, così le città sono diventate come alberi grandi ai quali però erano state recise le radici più profonde.
Da anni si assiste ad un imbarazzante spopolamento dei piccoli centri e non c’è solo la questione della riduzione degli abitanti. Con essa, è galoppante la crisi delle attività economica che spinge i giovani ad andare via. I piccoli borghi sono diventati paesi di anziani, spesso in cattiva salute e poco assistiti. Non sanno dove altro andare. Rimangono lì, in compagnia della solitudine.

Il pregio di un tempo, cioè la vita di paese, fatta di incontri, contatti, luoghi dove poteva esprimersi la vita sociale (dai partiti ai circoli, dalle strade affollate ai bar e alle trattorie), è sempre più un tratto precario. C’è un indebolimento della vita comunitaria. Una perdita di vitalità, anticamera dell’abbandono definitivo dei luoghi. Chi può, e ha una vita davanti, cerca altre possibilità, nuove strade. Non può fare diversamente.

Si assiste anche ad un fenomeno inverso, il ritorno alla vita rurale e paesana di quanti sono rimasti scontenti della vita di città e del lavoro. Professionisti che lasciano tutto e intraprendono attività nelle campagne. Non c’è solo rifiuto del modello urbano, anche tentativo di mettere a frutto le competenze acquisite nel vecchio mondo della campagna.
Il nodo però rimane quello del legame tra le periferie ed il centro, tra i piccoli borghi sparsi sul territorio e la dimensione mastodontica delle città, grandi o piccole che siano. L’interesse odierno verso i centri minori rischia di essere effimero senza una diversa attenzione, una visione che provi ad attribuire un senso nuovo a queste realtà.
Se vogliamo mantenerle come sono oggi, ritratti di malinconia e declino, possiamo anche continuare a coltivare l’icona dell’isoletta bella nel mare brutto e tempestoso. Si tratta solo di rifugi solitari e decadenti per gente stressata dal caos cittadino. Oasi di quiete certo, soffocate e straziate dal silenzio circostante.

La prospettiva sarebbe tutt’altra se si provasse ad abbattere confini e si guardasse ai piccoli centri come elementi di un tessuto più ampio comprendente la città, sforzandosi di trovare le possibilità di raccordo tra l’una e l’altra dimensione. E’ un problema di interventi per il recupero del patrimonio edilizio abbandonato, per finanziare nuove attività redditizie nelle campagne, per stendere un piano di viabilità sostenibile che unisca periferia e città.

Lo spopolamento è una piaga inarrestabile se non contrastata da incentivi, il più importante dei quali deve avere un’ambizione alta: non solo incoraggiare il ritorno alle origini, ma avere cura dei paesi rendendoli nuovamente vitali. Serve dunque un rapporto più stretto con le città, una rete di intese e contatti, che faccia uscire il piccolo centro dall’isolamento e dal senso di inutilità.
Tutto ciò alla fine gioverebbe anche alle città, martoriate dal traffico, dallo smog, dalla depressione individuale, che oggi guardano speranzosi oltre le mura. Il semplice “decentramento” è una via di fuga sterile. Si rischia di coltivare, in forma riveduta e corretta ma inutile, il mito antimodernista dello “strapaese” e del “ruralismo”. Un’idea senza costrutto e piuttosto snob. Serve piuttosto superare le ambiguità sul ruolo che i piccoli borghi possono ancora svolgere per una migliore qualità di vita del paese. Cambiando prospettiva, può darsi che si riesca ad avere una visione d’insieme.