Sette mesi fa ha cominciato a trovare sempre più felicemente spazio dentro me l’idea di riprovare, a 72 anni, l’esperienza del Cammino di Santiago de Compostela, dopo quella già fatta, sei anni fa, sui ridenti sentieri che da Porto ti accompagnano alla brulicante città che custodisce la tomba dell’apostolo San Giacomo (Santiago in spagnolo) il Maggiore, fratello di Giovanni l’evangelista.
Cosa mi spingeva verso questa nuova avventura? Non è facile spiegarlo. C’è qualcosa che si sente interiormente, tra cui la voglia e la gioia di comunicare con gli altri, che ti fanno decidere e ti spingono a partire. Ma anche un senso di sfida, a te stesso, alle tue capacità psicologiche ma anche fisiche, una sfida alle sicurezze facili, alla quotidianità rassicurante. Per questo penso che sia la testa più che la gamba che ti porta a Compostela.

Ulteriore motivo, specie per chi è avanti negli anni ed ha vissuto una vita piena in tanti suoi aspetti, è il valore della strada, del cammino, del continuare ad andare, come ricerca di libertà, voglia di scoprire e di scoprirsi, senza dare mai niente di scontato.
Quale fare stavolta? Ho scelto il Camino Primitivo, quello che – sempre preservato dall’invasione musulmana perché ottimamente difeso dalle montagne – parte da Oviedo e si snoda lungo 320 km di continui saliscendi (taluni piuttosto ripidi, con pendenza anche del 35-40%) che attraversano le Asturie e la Galizia.

Una natura bellissima fa da sfondo, ma anche conforto, alle sudate quotidiane, con un continuo susseguirsi di albe da togliere il fiato, scenari bucolici tutti diversi e particolari, poco frequentati, e forse proprio per questo ancor più belli e di aiuto alle riflessioni che questo pellegrinare, lo si voglia o no, suscita nell’animo.
Si sente spesso dire “il Camino lo fanno i pellegrini”: una frase che di primo acchito può sembrare banale, ma il cui significato è invece profondo. È infatti l’animo e lo spirito con cui le persone si avvicinano al pellegrinaggio e con il quale lo vivono che rende questa esperienza unica.
Una bella esperienza controcorrente: è innegabile, dopotutto, che viviamo in un mondo globale spersonalizzato e spersonalizzante, sempre più povero di ideali e sempre meno umanistico e solidale, dove a prevalere è spesso l’edonismo individualistico. Il Camino spinge invece a chiedersi se la solidarietà abbia davvero un senso per noi o non sia solo una bella parola, se la nostra vita sia veramente aperta agli altri.
Gli albergue, cioè i tanti ed economici ostelli dove riposare le membra (da 6 a 8 euro a notte quelli pubblici) si trasformano spesso in una brulicante lavanderia o nel foyer di un teatro che ha come tema dello spettacolo la tappa appena percorsa e quella da affrontare.
In definitiva, lasciandosi dietro le paranoie quotidiane della vita cittadina, e affrontando il Cammino con animo felice, si scopre che l’amicizia è possibile, non importa l’età, il sesso o la provenienza di chi incontri, perchè non è una gara di velocità, non c’è un vincitore, ma un continuo colloquio e confronto con il proprio Io, i propri valori e desideri.

Durante il Camino bisogna ricordarsi sempre che la meta non è il fine di questo viaggio “psico-sociale”, altrimenti si rischia di affrontare il tutto con tempistiche ultra rapide, riflesso dei rigidi tempi su cui si basa solitamente la nostra quotidianità.
Autoimponetevi di mettere da parte qualunque obbedienza a “schematiche tabelle di viaggio” decise prima di affrontare il Camino, perché il viaggio va vissuto attimo per attimo: dalla grande gioia iniziale della prima tappa – che, pur magari stanchissimi, vi trasmetterà tanta fiducia interiore nello scoprire che “incredibilmente” ce l’avete fatta – all’avvicinarsi di Compostela, quando certamente felici, orgogliosi, in cuore vostro vi dispiacerà, magari anche molto, che questa esperienza stia arrivando alla conclusione.
Senza alcuna presunzione, tirando un po’ le conclusioni, come direbbe qualcuno, mi sento di dire dopo queste due esperienze: il Camino fatelo per fede, fatelo per turismo, fatelo per sport, ma se avete tempo (e voglia) fatelo: è una esperienza che vi arricchirà profondamente e umanamente, che siate religiosi o no. E vedrete che molto probabilmente vi prometterete di rifarlo.
Perché il Camino è una metafora della vita, che fa bene sia al corpo sia allo spirito: al corpo, per i tanti benefici che porta con sé, dal rafforzamento del tono muscolare all’attività cardiaca, dall’ossigenazione alla circolazione sanguigna; allo spirito, sperimentando in modo concreto la temperanza, lacarità, la prudenza, la speranza, la fortezza, la fede.
Ha scritto Antonello Menne nel suo “Il Cammino di Santiago – Ti mancherà”: “Capisci che il Cammino è prima di tutto la strada che ti fa vedere le cose dal basso e te le fa apprezzare nel suo ritmo lento, perché non stai sfrecciando in macchina o in treno, e ti lascia tempo per comporre i tuoi pensieri, per associare alle sensazioni le tue idee per il futuro. Capisci che nella lentezza del camminare c’è la profondità della mente che progetta e costruisce, che attinge dal cuore per ridisegnare il tuo orizzonte […]”.
Ce l’ho fatta! A 72 anni, un po’ stanco ma felicissimo, sono arrivato a Santiago de Compostela.