Per me l’estate sei tu, città del mio cuore, con i tuoi parchi freschi anche nei giorni di calura, le note di sax che si muovono tra le siepi fino a quando calano le tenebre e i passi dei camminatori si fanno meno rumorosi. E anche durante l’inverno, anche quando sei ricoperta di neve, avvolta nel gelo e con stalattiti e stalagmiti attaccate ai pezzi d’acciaio dei tuoi ponti e delle tue gallerie urbane. Anche in quella stagione che ti imbianca, sei sensuale e suggeritrice d’incanto.
Si può amare un luogo come se avesse un corpo? Me lo chiedo, a volte, perché tu sei portatrice di bellezza e questa bellezza ti rende sinuosa così come può esserlo un essere umano.
Tu, che incanti e disincanti, sei la città che si scontra con le categorizzazioni, quelle che a volte, tuo malgrado, subisci. Però vinci sempre in originalità, così diventi unica, favolosa in ogni pezzetto di te, di qui e di lì, tra i palazzi della Fifth Avenue e le palazzine, una volta borghesissime e dolci, di Harlem. Oggi poetiche e ricche di storia e di storie.
Harlem, con le sue messe, i suoi canti e il suo Studio Museum pieno di arte di protesta e contemporaneità afroamericana: la voglia di libertà, il bisogno di liberazione espresso con l’immagine.
La tua bellezza costringe tutti a sfidarti. Il tuo abitante non può essere uguale a nessun altro. Ognuno ha il suo modo di abbigliarsi. C’è chi se ne frega e c’è chi fa finta di fregarsene: tutti i tuoi cittadini, in un modo o nell’altro, vogliono essere ammirati, vogliono volteggiare, essere unici. Li vedi anche nelle loro tute e scarpe da cantiere quando alzano un nuovo palazzo dalle parti di City Hall, o sulla 4th Avenue di Brooklyn, piani su piani, oppure quando escono ed entrano dai magazzini sotterranei di cui sono puntellate le tue strade. Quei magazzini che durante il proibizionismo diventavano speak easy, ovvero luoghi nascosti in cui fare e strafare. Con te, alla fine, bisogna ancora fare così delle volte, agire di nascosto…
Si avvicina Trevor, un poeta occasionale che si accosta a me e legge un suo testo. Il titolo: This is the year I will finally become famous. Sì, perché tu, vanitosa come sei, solleciti il tuo abitante a pavoneggiarsi.
Il tuo abitante lascia casa a fatica perché tu sei faticosa, stancante anche se flessuosa. Poi, una volta immerso nella tua suadente bellezza, il tuo abitante fa fatica a rientrare.
È strano a dirsi, ma tu mi ha restituito quel senso di appagamento e leggerezza che ricevevo da bambina dalla mia isola del sud d’Italia, quella isola dell’arcipelago eoliano che si chiama Lipari. Geologie diverse naturalmente, latitudini diverse, storie diverse, ma tu dai una simile sensazione, sei un luogo aperto. Alla fine, anche tu sei piena d’acqua, circondata d’acqua, oceano e fiumi, l’Hudson river, l’East river e gli affluenti. Il luogo, un luogo che si apre e comprende quel certo bisogno di liberazione. Andare sola, tra le tue vie, tra le tue coste, e’ un grande regalo. Andare senza quel lui o quella lei che mi indicano la via da percorrere, senza quella gente che cerca di fuggire da quella scelta sociale che un tempo pensava fosse quella giusta. Sola, solo con te, tu che ci sei e non ci sei, tu e basta. Tu, tu perché della bellezza si ha bisogno, di grazia ci si nutre e la tua eleganza è il migliore antidodo alla malinconia. Tu sei New York City e io sono colei che si affida alla tua ruvida squisitezza, liberamente sulla strada, dentro i tuoi clacson e le sirene assordanti, con te che mi rendi parte del tuo asfalto.
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