La grande fuga continua. Gli italiani se ne vanno dal Belpaese, anno dopo anno, con un aumento di oltre il 15% nel solo ultimo anno. Non era difficile intuirlo, ma ora la scontata conferma viene dal dettagliatissimo Rapporto 2017 sugli Italiani nel mondo che, ormai da dodici anni, la Fondazione Migrantes – organismo pastorale della CEI, la Conferenza dei vescovi italiani – presenta alla stampa e all’opinione pubblica. Si può interpretare la Fuga come un aspetto della mobilità, della circolarità dei flussi, della globalizzazione e internazionalizzazione. Si può essere convinti che, in realtà, tutto questo non sia un male. Anzi: gli studiosi e i politici più avvertiti e lungimiranti ci rassicurano che più “ibridazione” italica c’è nel mondo e meglio è.

È quanto ha spiegato, per esempio, Andrea Riccardi già Ministro per la Cooperazione internazionale e l’Integrazione nel governo Monti e presidente della Dante Alighieri, applauditissimo dal pubblico accorso nel grande e affollato albergo romano dove è stata illustrata la ricerca. «La Patria non è più solo all’interno dei confini nazionali. La globalizzazione fa ripensare tutti gli scenari internazionali e nazionali. Non è più la stagione delle nazioni ma quella delle civilizzazioni. E queste non seguono le vecchie dogane: si sviluppano e prosperano grazie alle ibridazioni e alle identità plurime. Le nuove aggregazioni sono dettate dalla cultura, che non ha bandiere. Lo aveva già capito anni fa Giovanni Paolo II quando diceva che la cultura crea sovranità anche senza territorio. L’idea da maturare è il passaggio a una nuova civilizzazione in cui il meticciato non significa tradire la propria origine, ma arricchirsi delle opportunità date dal mondo e dalle innumerevoli culture che lo abitano». E monsignor Nunzio Galantino, Segretario generale della Conferenza episcopale italiana, ha rincarato la dose criticando «la corsa agli appiattimenti sovranisti, al pensare che la risposta sia nel nascondersi all’ombra dei muri. E, invece, è vero il contrario».
Tutto giusto. Per quel che vale ne siamo personalmente convinti. Ma, comunque, bisogna lo stesso guardare i dati. Che dicono che l’8,2% degli oltre 60,5 milioni di residenti ufficialmente nella Penisola, in realtà, vive fuori dall’Italia. Sono poco meno di cinque milioni di persone, ma sono soltanto coloro che hanno voluto iscriversi all’AIRE, l’anagrafe degli italiani residenti all’estero. E sappiamo che in tanti non lo fanno, con una certa irritazione da parte della Farnesina.

Andiamo avanti con le cifre: brevemente perché i numeri sono sempre noiosi. La sintesi, precisiamo, è che nel 2016 ben 124.076 italiani sono espatriati, in aumento del 15,4% rispetto al 2015. Fanno le valigie soprattutto i giovani e anche questo era prevedibile. Nel 2016 se ne sono andati in 48.600 nella fascia di età tra i 18 e i 34 anni, con un aumento del 23,3% rispetto al 2015. Ma c’è una novità. Se è vero che tra quelli che scappano sono in aumento i single e in calo i coniugati, è anche vero che oggi se ne vanno anche intere famiglie, sia di giovanissimi sia di anziani. «Il fenomeno lo avevamo già registrato l’anno scorso» spiega a La voce di New York, Delfina Licata, curatrice e coordinatrice del ponderoso volume che quest’anno ha superato le 500 pagine ed è pieno di statistiche, grafici, tabelle e ricco di 45 saggi di 55 autori. «Degli oltre 124 mila trasferitisi all’estero l’anno scorso, 26mila hanno meno di 18 anni e 16mila sono sotto i dieci anni. Tutti ragazzi e bambini partiti al seguito del nuovo lavoro di mamma e papà. Ma ci sono anche i nonni che vanno a fare i babysitter ai nipoti: il 9,7% del totale». Fanno parte integrante, anzi fondamentale, di quelle strategie delle famiglie “allargate” che in Italia e un po’ in tutto il mondo occidentale stanno diventando la norma. Ma ci sono anche gli anziani che scelgono precisi Paesi per le loro nuove residenze: quelli dove la fiscalità è migliore quando non del tutto inesistente e il loro assegno di pensione arriva praticamente intero, senza le decurtazioni che in Italia spesso superano ampiamente il 40%. In pratica ci si concede il raddoppio netto dell’assegno. Gettonatissimi sono, per esempio, Portogallo e Tunisia. «Questi pensionati per ragioni fiscali sono di meno di quanto leggo in certi allarmati articoli di giornale» sostiene Salvatore Ponticelli, dirigente della Direzione Centrale Pensioni dell’INPS, «Ma ci sono». Qui, però, la novità è rappresentata dalle 380mila pensioni pagate all’estero a lavoratori stranieri che, terminato il periodo passato in Italia, rientrano a casa. Per lo più sono lavoratori impiegati nei servizi di base, con retribuzioni basse. Comunque il fenomeno è interessante da registrare. Nel giro degli ultimi quattro anni, le pensioni pagate in Asia, soprattutto nelle Filippine, e in America Centrale – due aree da cui continuano ad arrivare il grosso flusso di collaboratori domestici e operai – sono esplose di oltre il 40%.

Ma tornando agli italiani: da dove scappano sia i giovani sia i vecchi? Attenti a rispondere a caldo: «Dal Meridione, ovviamente». Non è così. La città da cui si fugge di più è Roma, con buona pace della sindaca Virginia Raggi e dei grillini. Ma quest’anno, il Rapporto si è arricchito di uno speciale importante: il dettaglio regione per regione. Si viene così a scoprire che le due regioni che guidano la classifica degli esodi sono entrambe settentrionali: prima di tutto la Lombardia (18% di espatri, per un totale di 23mila persone) e, a distanza, il Veneto (9,6% con circa 11mila). «Fuori d’Italia c’è un altro Veneto» sostiene il sociologo Riccardo Giumelli autore della scheda di questa Regione. E Lombardia e Veneto – diciamolo – sono due dei cantieri principali della laboriosità tricolore. Seguono la Sicilia (9,1%) e il Lazio (7,8%).
E dove vanno questi transfughi? Oltre la metà in un Paese europeo, quindi non troppo lontano da casa. Però la comunità italiana più numerosa è in Argentina (804mila), seguita da Germania (724mila) e Svizzera (606mila). E poi, c’è un trend curioso e inatteso: il Paese che l’anno scorso ha visto aumentare di più le iscrizioni all’AIRE (+ 27.602) è la Gran Bretagna. Nessuna paura della Brexit, a quanto pare. A ruota: Germania, Svizzera e Francia. Quindi, distanziati, Brasile e soltanto sesti gli Stati Uniti. È la fine o, quantomeno, il declino del sogno americano?
Se ne vanno anche, e questa è una assoluta novità, i “nuovi” italiani, cioè coloro che arrivati in Italia in cerca di fortuna sono riusciti, magari dopo anni di fatiche, a ottenere cittadinanza e passaporto. Emigrano per il solito scontato motivo: per trovare condizioni economiche che l’Italia non offre più. Particolarmente mobili sono le collettività del subcontinente indiano, Bangladesh in testa (ogni 100 nuovi cittadini, se ne vanno in 12) seguito da Pakistan (6 ogni 100) e India (5 ogni 100).
Insomma: anche se molti italiani si dicono preoccupati per le ondate migratorie sul territorio della Penisola, «in realtà l’Italia sta tornando a essere un Paese di emigrazione» sintetizza monsignor Guerino Di Tora, presidente della Fondazione Migrantes. «E, salvo cambiamenti, è un fenomeno che durerà per i prossimi 20 o 25 anni». Garbata, è arrivata anche la bacchettata alla politica, in stile curiale ma è arrivata: «La migrazione è un fenomeno complesso in continua e costante trasformazione. Non servono solo le statistiche e gli studi. Occorre che lo studio arrivi sulle scrivanie dei decisori politici e soprattutto occorre che lo studioso affianchi le istituzioni, le indirizzi per giusti e nuovi percorsi di lavoro per e con i migranti».

Già: la politica. Il politico presente, Vincenzo Amendola, sottosegretario agli Esteri e alla cooperazione internazionale con delega specifica per gli italiani nel mondo, ha lui stesso una storia personale di “mobile circolare tra estero e Italia” come si è scherzosamente definito. E ha mostrato che la materia, oltre a viverla sulla propria pelle, l’ha anche studiata. «Per gli italiani fuori d’Italia occorre costruire una rete di protezione. E bisogna puntare sulle identità regionali, come ha spiegato il Rapporto. Ma senza buttare quanto di funzionante abbiamo. Per esempio la rete consolare. Altri Paesi europei ci dicono che, nel giro di venti anni, vogliono abolire i loro Consolati: tutti i documenti, a cominciare dai passaporti, verranno richiesti e rilasciati online. Credo, invece, che i Consolati italiani vadano mantenuti e rinforzati». Già, ma con quali mezzi? Amendola deve ammettere: «Gli strumenti a disposizione della politica sono pochi, a cominciare dalla carenza di fondi. Una carenza in continuo aumento». Come la Grande Fuga.
Con questo pensiero è possibile sia vivere ovunque restando se stessi e mantenendo la propria identità sia partecipare alla cittadinanza del mondo, al cosmopolitismo. È questo il senso di una cittadinanza che non ha confini ma elementi di caratterizzazione specifici rispetto alle radici di ciascun soggetto che vi partecipa. Una partecipazione che coinvolge e non discrimina, guidata dalla solidarietà e dal rispetto reciproco, dove il dialogo e la interrelazione tra le persone diventa l’unico codice di comprensione al fine di un interesse comune.