Accetta la sfida di trasferirsi a New York con entusiasmo e un po’ di sana paura e crede nel ruolo dell’architettura come strumento di fruizione dell’uomo. Funzionalità, bellezza e artigianalità: questi i tre elementi più importanti per Domingo Abrusci, giovane architetto di Acquaviva delle Fonti, in provincia di Bari, da qualche anno nella Grande Mela dove lavora per uno studio di architetti che si occupa principalmente di cambiare il volto agli ospedali americani.
Dopo la laurea all’Università La Sapienza di Roma, Domingo comincia a collaborare a diversi progetti tra i quali la realizzazione del Flagship store di Armani a via Montenapoleone e il Gucci store a Bari.
Nel confronto tra New York e l’Italia, il ruolo dell’architetto cambia. Più ampia la figura e le mansioni oltreoceano, mentre in Italia resiste l’artigianalità.
Della sua Puglia gli manca il mare, il cibo e la semplicità delle cose. Quando parla di New York cita Pasolini: “New York non è un’evasione: è un impegno, una guerra che ti mette addosso la voglia di fare, affrontare, cambiare”.
Cosa hai pensato quando hai saputo che saresti andato a lavorare a New York?
“Il primo pensiero è stato quello di sentirmi fortunato ed entusiasta perché mi preparavo a lavorare nel centro nevralgico del mondo, quella città che fino a qualche giorno prima immaginavo e sognavo guardando Friends. E poi anche un po’ di sana paura, per questa nuova avventura, quella paura che è la forza necessaria ad affrontare le nuove sfide e avventure come vivere a New York. La sensazione più bella e la più emozionante la l’ho provata quando sono arrivato a New York e ho iniziato a capire quanto sia stimolante ed eccitante, ma anche quanto sia difficile. Infatti mi piace ricordare le parole di Pasolini su New York che ho ben scolpite nella mia testa: New York non è un’evasione: è un impegno, una guerra che ti mette addosso la voglia di fare, affrontare, cambiare (…) È una città magica, travolgente, bellissima. Una di quelle città fortunate che hanno la grazia. Come certi poeti che ogni qualvolta scrivono un verso fanno una bella poesia”.
Ti occupi di architettura nei centri ospedalieri. In che modo intervenite nelle strutture sanitarie americane?
“L’intervento che si realizza ovviamente varia da cliente a cliente, ma anche soprattutto dal tipo di struttura che ci viene richiesto, che sia un centro ortopedico o cardiologico, e dalla sua posizione all’interno della città. Quello che cerchiamo di fare sempre è di organizzare gli spazi nel modo più appropriato e in funzione del paziente, nel rispetto delle normative presenti in ambito ospedaliero, cercando di rendere l’ambiente accogliente e a misura del paziente e di contribuire anche con un qualcosa che renda piacevole il luogo, soprattutto negli ospedali pediatrici. E ovviamente seguiamo le direttive e le richieste dei medici che insieme a i pazienti sono i fruitori finali delle strutture, che ora più di prima richiedono di progettare delle strutture contemporanee e high-tech. Questo vale soprattutto in caso di ambulatori, in cui la direzione è verso il one-stop shop [una struttura che offre diversi servizi, n.d.r.], molto vicino al concetto del retail più che di un centro medico”.
Qual è la differenza tra il modo di lavorare negli Stati Uniti e in Italia nel tuo campo?
“Le differenze sono molte tra il mondo italiano e quello americano. In primo luogo, anche dal punto di vista legislativo, ci sono variazioni da Stato a Stato, come sarebbe per noi se andassimo a lavorare in un’altra nazione europea, quindi penso che sia corretto comunque parlare delle differenze che si possono notare in una città come New York, rispetto al resto degli Stati Uniti. La differenza sostanziale è sopratutto nell’approccio del progetto: in America l’ambito manageriale è fondamentale e basilare dal progetto più piccolo a quello più grande. Questo non significa che in Italia non vi sia una cultura di gestione del progetto, ma sicuramente varia l’approccio del progetto in funzione della dimensione dello stesso. La figura dell’architetto a New York, se non si parla prettamente di design, è completamente diversa da quella italiana, dove, a partire dall’istruzione universitaria, l’architetto è la figura di riferimento per il design e le soluzioni innovative. In America la figura dell’architetto è molto più ampia: cura tutta la fase del progetto coordinando le figure del processo edilizio ai contractor, ai clienti, cosa che in Italia succede solo per grandi opere e solo adesso si sta iniziando a regolamentare con la gestione del progetto complesso. Infine, cambia il rapporto con le maestranze presenti in cantiere. A New York, devono essere seguite molto da vicino e devi essere molto preciso e puntuale nei disegni, in Italia, le maestranze sono molto capaci sia di interpretare i disegni che trovare soluzioni con l’architetto alle problematiche che si presentano in cantiere. Questo per dire che in Italia esiste ancora la figura dell’artigiano e devo dire che questa è una collaborazione che mi manca molto qui in America”.
Come si sta evolvendo l’architettura a New York?
“L’architettura newyorkese si evolve in maniera davvero veloce, sicuramente gli ultimi interventi si concentrano sullo sviluppo di aree che prima avevano altre funzioni, basti solo pensare all’intervento dell’High Line che è una lunga passeggiata verde tra i grattacieli sfruttando una vecchia linee ferroviaria in disuso, o anche il grande progetto di Hudson Yards in Midtown west, il più grande sviluppo Real Estate degli Stati Uniti e il più grande a New York dai tempi del Rockefeller Center. Vi è una costante opera di riqualificazione e di gentrification di aree che erano adibite ad altre funzioni in passato ma che oggi non hanno perso la loro funzione primaria. Pensiamo al quartiere stesso di Tribeca, nato come farmland e iniziato a trasformarsi a fine Novecento con l’opera di gentrificazione in una zona residenziale e artistica, dove c’è uno degli ultimi interventi dei famosi architetti svizzeri Herzog & De Meuron con un bellissimo grattacielo interamente costruito in cemento armato, cosa più unica che rara a New York. Indubbiamente l’arrivo delle archistar ha contribuito anche a modificare e modellare ancora di più lo skyline di New York, basti pensare al nuovo edificio residenziale al 57west in Hell’s Kitchen del gruppo danese BIG, o al grattacielo del New York Times di Renzo Piano o anche al 432 Park Avenue Tower dell’architetto uruguayano Rafael Viñoly Beceiro, la torre più alta dell’emisfero occidentale. Sicuramente tutti gli interventi mirano a dare la possibilità di poter vivere in maniera completa la città in ogni punto tu ti possa trovare che sia Lower East, Midtown o Green Point, Long Island City, con un’attenzione particolare agli spazi pubblici e al verde pubblico, più presente rispetto al passato”.
Quale sarà l’architettura del futuro secondo te?
“Non so dire quale potrà essere l’architettura del futuro, ma sicuramente posso dire quello che mi piacerebbe potesse accadere e sopratutto quali saranno le mie personali linee guida: riportare al centro del discorso architettonico il fruitore finale, ovvero rendere l’opera architettonica bella ma sopratutto funzionale, il che significa funzione – forma e non forma – funzione. E poi avere un’attenzione particolare verso le nuove tecnologie e una corretta progettazione che è il vero punto di partenza”.
Quali sono gli spazi architettonici di New York che più ti colpiscono?
“Gli spazi architettonici a New York sono davvero tanti, ma l’emozione che ho provato la prima volta che sono entrato al Guggenheim Museum non è paragonabile ad altre. Io nel mio piccolo la definisco l’architettura perfetta, dove una forma così audace, considerando anche che è stata edificata negli anni ’50, segue una funzione e una fruizione degli spazi senza sbavature, cosa di difficile riscontro in alcuni nuovi spazi museali. Il visitatore non si sente mai perso e anche non avendo la canonica distribuzione, come potrebbe essere il Louvre o il MoMa, sa sempre benissimo cosa fare cosa guardare e può apprezzare sia l’arte esposta che la bellezza degli spazi all’interno del museo. Ovviamente non si può non citare l’Empire State Building, sarebbe come essere a Roma e non parlare del Colosseo: è una figura iconica della citta di New York, anche se devo essere sincero, io preferisco la visuale che si ha dal Rockefeller Center, dove c’è Central Park da un lato e lo skyline di Manhattan dall’altra. Infine come non citare l’Highline o anche il quartiere di Dumbo a Brooklyn, incastonato tra i due ponti di Brooklyn e Manhattan, un altro esempio di riuso e di corretto riutilizzo delle aree: dove prima c’era un attracco portuale, è arrivato lo sviluppo che lo ha trasformato in un polo attrattivo della città sia turistico, artistico e lavorativo con gallerie d’arte e centro di start-up”.
La tua Puglia. Quali sono i luoghi che più ti mancano?
“Il mare, la possibilità di raggiungerlo in breve tempo il fine settimana, godere del cibo, del sole e di posti belli come Polignano, o le calette dopo Monopoli. Ovviamente mi manca il posto dove sono cresciuto, Acquaviva delle Fonti, ma probabilmente è una mancanza legata ai miei genitori e agli amici, o anche le passeggiate di sera nel centro storico di Bari con l’odore del mare… Ma sicuramente oltre ai luoghi, la cosa che mi manca di più di tutte è la semplicità delle cose”.