Dopo la chiusura per un'intera stagione ha riaperto ufficialmente le porte il 29 settembre lo storico Teatro Eliseo, grazie all’intervento di Luca Barbareschi che ne ha rilevato la proprietà proponendo un progetto decisamente innovativo per Roma, destinato a portare la città verso una concezione internazionale delle arti sceniche.
Il nuovo Eliseo ha appena aperto la stagione con Una tigre del Bengala allo zoo di Baghdad (in scena fino all’11 ottobre) del commediografo americano Rajiv Joseph, finalista al premio Pulitzer. Diretto e interpretato dallo stesso Luca Barbareschi, lo spettacolo è ambientato durante il conflitto iracheno e costruito come un gioco surreale di umorismo noir sulla follia e violenza umana. Una prima di forte impatto, che segna da subito il preciso tracciato su cui si muoverà questa nuova gestione.
Attore, regista e produttore, Barbareschi ha alle spalle una lunga ed eclettica vita professionale, in cui alterna la pratica di teatro e cinema a cariche istituzionali legate all’ambito culturale (è stato, fra l’altro, membro del CdA del Piccolo Teatro d’Europa di Milano, dell’IMAIE e della Fondazione Festival del Cinema di Roma). In campo strettamente teatrale, uno dei maggiori meriti a lui riconosciuti è l’aver introdotto per la prima volta negli anni ’80 la drammaturgia americana contemporanea, quella di David Mamet in primis. Con la stessa spregiudicata visione internazionale, oggi intercetta l’urgenza data dal difficile momento che sta attraversando la Capitale, soprattutto in termini culturali, rilevando il teatro con un contratto di oltre 20 anni e il dichiarato intento di proiettarlo nel panorama teatrale europeo.

Una scena di “Una tigre del Bengala”. Foto di Bepi Caroli

Una scena di “Una tigre del Bengala”. Foto di Bepi Caroli
Datato 1918 e con una lunga tradizione di teatro contemporaneo “colto”, l’Eliseo chiude drammaticamente i battenti alla fine del 2014, ma dopo pochi mesi e importanti lavori di ristrutturazione viene oggi riaperto da Barbareschi, con la sua direzione artistica e il sostegno una squadra di collaboratori con diverse e specifiche competenze. Secondo un modello di gestione che rispecchia un’idea internazionale di centro culturale, in cui il palcoscenico è fulcro di molte e varie attività di alto livello, dalla musica all’enogastronomia. Come avviene per i teatri di Londra e Parigi, lo spazio teatrale sarà, insomma, luogo di fermenti e incontri trasversali, ma soprattutto una macchina economicamente autonoma.
È dunque possibile fare impresa culturale in Italia?
“Purtroppo per molti anni abbiamo considerato l’impresa culturale come sovvenzionata a fondo perduto e a getto continuo dallo stato. Un’impresa culturale seria è possibile mettendo insieme banche, project financing (bisogna far tornare i numeri) e altre competenze. Noi con un investimento di 4 milioni e mezzo di euro abbiamo ristrutturato due teatri che avevano gravi problemi di inagibilità facendo un piano economico con scadenze, sostenuto da imprenditori seri, soprattutto pensando a costruire una macchina economica oltre che culturale. Ci sarà un ottimo ristorante, due bar, un’orchestra… dodici attività parallele che porteranno nuovo pubblico e altro flusso di gente, quindi denaro. Bisogna avvalersi di esperti di marketing, di comunicazione, creare rapporti con le scuole… noi arriviamo un po’ tardi rispetto all’Europa. L’America invece non è un termine di confronto, è diversa, estremamente commerciale, con altri parametri”.
Che riscontro ha trovato nelle istituzioni?
“Ho trovato una grande partner nella dottoressa Giovanna Marinelli (assessore alla Cultura del Comune di Roma), persona leale, partigiana, coerente e competente. L’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, con cui da anni condividiamo passioni teatrali, era alla prima. Il ministro ha scelto di dare la priorità ad altri impegni. Dal punto di vista economico quest’anno siamo stati piuttosto penalizzati, ci è stato assegnato 1/3 in meno di quanto aveva preso precedentemente l’Eliseo: 1 milione e 100.000 euro in meno per un teatro che si sta rilanciando è uno sgambetto. Al nostro teatro appena ristrutturato, pienamente a norma, si richiedono 8 vigili in sala, 20.000 euro al mese, mentre altri teatri romani precari ne devono avere solo 3… D’altronde in questo primo anno siamo una mosca bianca, e il nuovo dà sempre fastidio. Ma siamo agguerriti”.
Il cartellone delle due sale è evidentemente “diverso” da quello che viene solitamente proposto a Roma, include numerosi autori viventi (italiani e non) e titoli poco frequentati, anche fra i classici: a quale pubblico si rivolge?
“Io credo che questo sia un macrotema pericoloso. Nel ranking delle priorità italiane il teatro è scomparso: mentre a Londra è al terzo posto, in Francia al secondo o quarto, a seconda dagli anni, da noi c’è una serie di cose che vengono prima. Il punto quindi è ricostituire un pubblico trasversale che frequenti le sale. Il pubblico dell’Eliseo ha un’età media alta, ma ha vissuto 30 anni di teatro, è molto colto, ed è molto più facile che accetti una novità come Una tigre del Bengala nello zoo di Baghdad anziché un giovane privo di preparazione, incapace di celebrare il rito dell’ascolto, della concentrazione.
L’Eliseo offrirà una proposta trasversale, per tutte le età, riferita ad un pubblico mediamente colto. Non importa la definizione di un genere, ma l’accesso alla materia, che può essere anche complessa, in una direzione alta, colta, istituzionale, cioè di rispetto del luogo. Non si può non tener conto del passato del teatro, nel delineare il suo futuro: le radici qui sono De Filippo, Visconti, Valli… una storia non necessariamente di provocazione in senso volgare, perché si può fare scandalo usando un classico senza tradirlo, attualizzandolo nell’impostazione registica, sottolinenando cose che riportano al contemporaneo, come ha fatto splendidamente Lavia con Il nemico del popolo di Ibsen (2014). Nello stesso tempo c’è bisogno di dare spazio al contemporaneo, anche se parlare di “drammaturgia contemporanea” è un pleonasma, solo in Italia si usa questa espressione, all’estero è sottinteso che la drammaturgia sia per forza di cose contemporanea. In questa stagione siamo il solo teatro italiano a produrre otto spettacoli, tra le due sale, di autori italiani contemporanei (quattro all’Eliseo e due al Piccolo). Voglio riportare l’abitudine al racconto, far crescere gli autori che parlano di teatro, la figura del dramaturg che esiste in tutti i teatri d’Europa ma che da noi non c’è”.
È soddisfatto di questo primo cartellone?
“Sì, sono soddisfatto di un calendario che mette insieme Lavia, Dini, De Bei, Pagliai, Placido, Scianna e Ambra, D’Alatri, Cecchi, Venturiello… Ho potuto scegliere, sono circondato da artisti che stimo, ed è in nuce ciò che sarà l’Eliseo: un teatro di produzione e regia, come i teatri anglosassoni, che offre vari prodotti, fra cui alcuni di eccellenza da far girare in Italia e nel mondo”.
Lei ha visto Una tigre del Bengala allo zoo di Baghdad a Broadway: cosa l’ha colpita in quell’allestimento e qual è stato quindi il suo approccio – come regista e come attore – per renderlo accessibile al pubblico italiano?

Una scena di “Una tigre del Bengala”. Foto di Bepi Caroli

Una scena di “Una tigre del Bengala”. Foto di Bepi Caroli
“Ho cercato di lavorare con grande rispetto sulla partitura musicale del testo, sia nella traduzione che nell’impostazione registica, e sono contento che l’autore ne sia stato entusiasta. Ho lavorato seguendo la storia, costruita su tre piani (onirico, realistico, politico), e concentrandomi sugli attori, un aspetto che mi piace molto. Visivamente è del tutto diverso da Broadway, lì ad emergere era il testo e l’interpretazione di Robin Williams, un grande interprete, così come gli attori. Anche se gli americani hanno macchine molto ricche, noi europei non abbiamo nulla da imparare da loro esteticamente, non a caso ci chiamano all’estero. Loro portano avanti un realismo teatrale molto cinematografico, noi, con un retaggio di grandi scenografi, andiamo oltre, nel nostro teatro c’è un’invenzione scenografica simbolica molto più interessante”.
Il teaser dello spettacolo (v. sotto) – con l’attore in costume di scena e una testa mozzata in una busta – è forte, provocatorio: è stupito dalla reazione suscitata nella gente di strada?
“Non mi ha riconosciuto nessuno, è stato molto divertente, soprattutto la reazione degli anziani, comprensivi, che offrono aiuto, denaro, accoglienza. I giovani sono più intolleranti, più violenti, c’è molto cinismo. Queste reazioni mi hanno fatto riflettere sull’immigrazione, l’Europa sarà arricchita fra 2-300 anni, somiglieranno tutti agli italiani, così meravigliosamente misti. Come me: una madre ebrea tedesca, un padre sefardita, nato in Uruguay, sono un italiano sintesi di tante etnie. Le razze chiuse tra quattro confini si indeboliscono, a me piace sapere che nel mio sangue scorre quello marocchino, che il mio cognome viene dai pirati Barbareschi, famigerati nell’800. Mio nonno è arrivato a Milano in quell’epoca con una schiera di figli, faceva il fabbro ferraio, lavorava già a 9 anni. Cadendo sul ghiaccio si è rotto il naso e non sentiva più gli odori… una bella storia da raccontare…”.
Ci sono altri autori esteri su cui ha già in mente di lavorare?
“Sto lavorando su molto materiale: Photograph 51 di Anna Ziegler, storia della prima donna che ha scoperto il DNA; Il curioso caso del cane ucciso a mezzanotte, sulla sindrome di Asperger, una forma di autismo (successo letterario firmato dall’inglese Mark Haddon e quindi pluripremiato play tutt’ora in scena nel West End londinese e a Broadway, nda); un Edipo di Shepard, un testo francese, due russi, altri italiani…”.
Intanto, nel cartellone di quest’anno è prevista la prima nazionale del nuovo play di Mamet, China Doll, diretto da Alessandro D’Alatri e interpretato da Eros Pagni. Mentre Barbareschi, che si definisce uno “spettatore emotivo” e un “assiduo frequentatore di teatri sia in Italia che all’estero”, continua instancabilmente a progettare le prossime stagioni dell’Eliseo, il cui nuovo logo non lascia adito a dubbi: È (uno spettacolo).
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