L’aula bunker dell’Ucciardone è deserta, l’udienza del processo sulla trattativa tra mafia e Stato è finita da poco. Dentro c’è solo il pm Nino Di Matteo, circondato da una mezza dozzina di carabinieri armati fino ai denti che tengono d’occhio tutte le uscite e le tribune per il pubblico. Dopo le intercettazioni su Riina, che lo vuole morto al più presto, è l’uomo più scortato d’Italia dopo il presidente della Repubblica. È stanco dopo sei ore di processo, però misura le parole e si commuove quando ricorda un episodio.
Cosa ha provato quando ha saputo delle parole di Riina?
«Ho cercato di far prelevare la professione, concentrandomi sulla valenza investigativa e processuale dei colloqui di Riina con l’altro detenuto. Faccio il magistrato da più di 20 anni e devo ammettere che ho fatto una riflessione. Tante volte anche da pm di Caltanissetta mi sono trovato nella veste di chi doveva dimostrare la volontà omicida di Riina e questa volta, e per la prima volta, quella volontà sembra trasparire dalla sua voce e riguarda proprio la mia persona…».
Secondo lei costituiscono soltanto delle minacce o un vero e proprio progetto di morte nei suoi confronti?
«Tecnicamente e giuridicamente la minaccia è la prospettazione di un male ingiusto che si vuole fare percepire al minacciato. In questa conversazione si coglie invece un desiderio di Riina di riuscire a far trapelare all’esterno una volontà di riprendere il percorso delle stragi e non mi pare che questo sia solo una minaccia. Né fino ad oggi è emerso alcun concreto elemento per ritenere che Riina potesse pensare di essere intercettato».
Perchè Riina ce l’ha tanto con lei, nonostante abbia decine di ergastoli?

Totò Riina, boss di Cosa Nostra«Fino a quando le nostre indagini saranno in corso non risponderò a questa domanda e non anticiperò valutazioni che eventualmente esporrò nelle opportune sedi processuali. Posso solo dire che io ho chiesto e ottenuto per Riina diversi ergastoli, ma le sue parole e la sua rabbia mi sembra siano collegate a vicende attuali e in corso».
«Fino a quando le nostre indagini saranno in corso non risponderò a questa domanda e non anticiperò valutazioni che eventualmente esporrò nelle opportune sedi processuali. Posso solo dire che io ho chiesto e ottenuto per Riina diversi ergastoli, ma le sue parole e la sua rabbia mi sembra siano collegate a vicende attuali e in corso».
Dopo quelle parole di Riina c’è stata una sollevazione da parte della società civile, lei riempie i teatri e il suo nome, suo malgrado, è diventato popolare quasi quanto quello di una rockstar. È nata addirittura una scorta civica per tutelarla. Come valuta tutto questo?
«Sono soltanto un magistrato che con tutti i suoi limiti ed assieme ai colleghi Teresi, Del Bene e Tartaglia, sta cercando di fare al meglio il suo dovere senza condizionamenti e timori di alcun tipo. Il clamore mediatico non ci interessa e siamo consapevoli che dà adito a strumentalizzazioni di chi vuole farci apparire come magistrati in cerca di popolarità. Riconosco però che il sostegno di tanti semplici cittadini e l’interesse di tanti giovani e meno giovani alla ricerca della verità su quello che accadde negli anni delle stragi, costituiscono per noi uno stimolo ulteriore per cercare di fare il nostro dovere fino in fondo e probabilmente anche uno scudo protettivo contro rischi di ogni genere».
Tutto questo le sembra normale in un paese civile?
«L’esperienza ci insegnato che il tentativo di accertare la verità risulta costellato di sempre crescenti difficoltà ogni qual volta si alza il livello delle investigazioni e quando le inchieste ed i processi finiscono con connettersi ad eventuali rapporti politico-istituzionali della mafia. Tutto quello che sta accadendo non mi sorprende e dobbiamo attrezzarci per continuare con la stessa determinazione e lo stesso equilibrio che abbiamo sempre cercato di seguire».
Come si vive blindato e scortato 24 ore su 24?
«Da 21 anni sono sotto scorta e da un po’ di tempo la protezione si è andata via via intensificando. A coloro i quali pensano alle scorte come simbolo di potere e autorità vorrei fare un invito a riflettere su cosa significa non potere vivere anche i momenti più personali o famigliari con la libertà e la normalità di tutti».
Quali rinunce le sono costate di più?
«Non guardo alle rinunce personali perché sono compensate dalla consapevolezza di avere la fortuna di svolgere quello che sognavo di fare da giovane studente: il magistrato che si occupa di mafia. Mi pesa di più la consapevolezza di costringere indirettamente chi mi sta accanto a sopportare le preoccupazioni e le limitazioni della mia vita privata».
Quando ha iniziato a fare il magistrato immaginava che sarebbe finita così?
«Ho indossato la toga da magistrato mentre ancora svolgevo il tirocinio nell’atrio del palazzo di giustizia in occasione della camera ardente di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti di polizia assassinati a Capaci. (Un attimo di pausa, la voce è incrinata dall’emozione). Appartengo ad una generazione di magistrati che è entrata in carriera con quei precisi punti di riferimento e che ha vissuto subito il dramma delle stragi ma pure la splendida reazione della magistratura nel suo complesso a quegli orribili delitti. Spero soltanto che la magistratura così come la società civile non perda mai la memoria di quei fatti e non ritorni a quella sostanziale indifferenza rispetto alla mafia che caratterizzava il nostro paese prima delle stragi».
La tensione e il livello delle minacce sono salite quando è iniziato questo processo… come se lo spiega?
«Credo che i motivi possano essere più complessi e riguardare anche il timore che il mio ufficio faccia luce su aspetti e soggetti che ancora non sono stati individuati o su vicende che non sono state chiarite».
Quali sono oggi le capacità di Cosa nostra di infiltrarsi nella società e agganciare rapporti con la politica e l’imprenditoria?
«Cosa nostra ha sempre avuto piena consapevolezza di quanto per lei sia fondamentale instaurare e coltivare rapporti esterni con la politica e le istituzioni in genere. Per reciderli del tutto però non è sufficiente l’azione della magistratura e delle forze dell’ordine, bensì è decisivo un auspicabile cambio di passo della politica».
Riina non ha parole di elogio nei confronti delle nuove leve di Cosa nostra. Quali sono oggi le condizioni dell’organizzazione?
«Indubbiamente rispetto a 20 anni fa l’ala militare dell’organizzazione è stata indebolita ma la storia della mafia ci dovrebbe indurre a non ripetere gli stessi errori del passato. Più volte la mafia è stata data per sconfitta, ma ogni volta ha saputo risorgere dalle sue ceneri. Dobbiamo creare le condizioni perché ciò non avvenga più e per fare questo dobbiamo continuare a pensare che la lotta alla mafia deve essere condotta con la stessa determinazione e incisività non solo quando la mafia spara e lascia i morti eccellenti per strada ma anche e soprattutto quando, come in questo momento, appare esclusivamente dedita a coltivare i suoi interessi economici».
Due giorni fa deponendo a Caltanissetta, il magistrato Ilda Boccassini ha detto che aveva molti dubbi sulla attendibilità di Scarantino e dunque sulle indagini su via D’Amelio. Lei proseguì quelle indagini, non ebbe mai dubbi su Scarantino?
«Non posso rispondere in modo esaustivo in una intervista, lo farò se e quando l’autorità giudiziaria mi chiamerà a testimoniare. Cito un dato di fatto. Si legge che l’indagine sulla strage di via D’Amelio venne depistata fin dalle prime ore successive allo scoppio della bomba. Chi se ne occupò da subito non si accorse di nulla? Io ho iniziato ad occuparmene alla fine del 1994 e con orgoglio professionale rivendico di avere contribuito ad accertare le responsabilità per quella strage di decine di mafiosi giudicati colpevoli in via definitiva».
Sotto l’intercettazione durante l’ora d’aria in carcere con Riina che fa capire ad un altro boss che bisogna uccidere il pm Di Matteo