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December 11, 2011
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ARTE&POLITICA/Il sogno della democrazia

Paola MillibyPaola Milli
in foto Ehsan Mehrbakhsh

in foto Ehsan Mehrbakhsh

Time: 12 mins read

 Ehsan Mehrbakhsh, giovane artista iraniano, nato nell’83, a Roma dal 2006, figlio di  Jahannoor, militante comunista perseguitato dal regime dello Shah, come da quello degli Ayatollah, ripercorre, in un colloquio aperto, originato dalla stima che l’indubbio talento artistico, di cui è portatore, suscita negli osservatori, un passato che non ha vissuto interamente, narratogli da suo padre, da una rete familiare solidale che ha protetto la sua infanzia dal vuoto dell’assenza, consentendogli di elaborare una memoria che chiama a raccolta dialettica storica e affettività in una sintesi densa di significato. Nel maggio scorso Ehsan è stato protagonista, con altri artisti iraniani, di un evento multimediale sull’arte underground iraniana, “Iran: Sguardi sotterranei”, organizzato dalla Biblioteca Guglielmo Marconi, del circuito Biblioteche di Roma.

 

 

Teherans-Heavy miniateur di Ehsan Mehrbakhsh

 

 

 

Quando eri in Iran che percezione avevi della situazione politica?

«Se non ci si occupava di politica, facilmente si poteva pensare di essere nella “normalità”, nel senso che fino a cinque anni fa non vi erano manifestazioni di opposizione radicale al regime. Bisognava occuparsi solo del quotidiano: nutrirsi, svolgere un lavoro nel silenzio, per vivere e sopravvivere oscuramente, senza liberare alcuna intenzione d’arte, prigionieri in una convenzione comportamentale blindata che, sola, teneva lontana la polizia. L’agire politico era impensabile, veniva percepito dalle autorità come un affronto alla sicurezza dello Stato, combattuto con una durezza senza eguali».

Che ricordo hai della tua infanzia?

«L’ho vissuta a Tehran dove sono nato, mia madre è di Tehran, mio padre, figlio di un militare dello Shah, è nato al nord. Il ricordo più forte della mia infanzia  è legato alla carcerazione di mio padre ad opera del regime di Khomeini, durante i tumulti che delegittimarono lo Shah, costringendolo alla fuga, lui militava nel partito comunista».

I comunisti iraniani scesero in piazza con Khomeini?

«No di certo, in realtà dentro la rivoluzione del ’79 vi fu un conflitto interno tra comunisti, islamici e altri gruppi politici che avevano in comune il solo obiettivo di provocare la caduta dello Shah. Alcuni sostenevano che la Cia avesse impegnato grandi risorse per favorire Khomeini perché vi era ancora un clima da “guerra fredda” e non si poteva rischiare un’alleanza con l’Unione Sovietica. Fu la piazza a decidere, il popolo che decretò la finedel potere dello Shah».

Come ha descritto, tuo padre, la vita al tempo dello Shah?

«Era un altro mondo la Persia laica, aveva, però, altri problemi, non meno gravi, un tempo in cui a governare era una corruzione controllabile che ha fatto referire a tanta gente il presente islamico. Tra questa gente c’è anche mio padre  che pure ha patito la galera khomeinista per essere stato un comunista attivo».

Quando uscì di prigione, tuo padre poté continuare la sua militanza politica?

«Non gli fu permesso, non poté lasciare il Paese, dovette abbandonare il lavoro statale e rinunciare alla pensione».

Da bambino, come hai percepito la carcerazione di tuo padre?

«Mi portavano lì, parlavamo al telefono attraverso un vetro, mi avevano detto che era un posto dove lui lavorava, che era troppo impegnato con il lavoro per uscire. Per quattro anni ho creduto che questa storia fosse vera».

Ci furono esecuzioni di militanti comunisti nelle carceri iraniane?

«Dentro no, che si sapesse con certezza, ma fuori sono stati moltissimi i comunisti sistematicamente eliminati dalle forze di sicurezza. Un intero cimitero a Teheran, chiamato Khavavalan, è conosciuto perché vi sono sepolti tutti coloro che sono stati condannati a morte e impiccati per mano dello Stato».

I comunisti erano considerati sovversivi quando governava lo Shah?

«Erano considerati come in America durante il maccartismo, era la stessa politica persecutoria e violenta, discriminatoria e feroce».

Con Khomeini le cose non migliorarono, non è vero?

«Da principio non sembrava la stessa situazione, la rivoluzione lasciava sperare in un anelito di libertà: dovevano esserci libere elezioni, si pensava, e il popolo avrebbe deciso chi doveva governare, non dovevano essere gli islamici o i comunisti o i monarchici a decidere. Poi si realizzò che non sarebbe stato un esercizio di libertà a  determinare il destino politico del proprio paese. Mio padre venne arrestato, processato e condannato a quattro anni di carcere per le proprie idee, null’altro; dal Paese uscivano notizie agghiaccianti di esecuzioni di massa degli oppositori di Khomeini, di diversa provenienza politica».

Attualmente i comunisti iraniani sono attivi sul territorio?

«Le tracce del passato del partito comunista dell’Iran sono concentrate a Parigi, ma confidiamo che proveranno a cambiare il mondo le nuove generazioni di comunisti iraniani nati nella loro terra».

 Quale Paese era fonte d’ispirazione del comunismo iraniano, le socialdemocrazie europee, la Cina o Mosca?

«Sicuramente l’Unione Sovietica».

La violazione dei diritti umani viene ammessa oggi dalle milizie basiji?

«Hanno riconosciuto di avere usato le armi contro il popolo disarmato, prima lo negavano. La legge iraniana, in teoria, condanna a morte per certi tipi di reati: l’omicidio, la violenza sessuale, il traffico di droga, ma hanno inventato un altro reato per condannare a morte i giovani  che scendono in piazza: essere nemici di quel dio che il governo rappresenta, che si esprime per  mezzo dei suoi miliziani armati».

Quale legame intercorre tra i tuoi dipinti e la libertà negata in Iran?

«In Iran l’arte è sottoposta ad una censura assoluta e pervasiva, non ci si può esprimere liberamente, tutto è sottoposto a rigidi controlli, si  finisce in prigione per una spalla nuda sulla tela,  con l’accusa di oscenità, se fossi ancora a Teheran non potrei dipingere quello che sento nell’anima, quello che mi emoziona, ciò che mi indigna o mi commuove. La mia pittura è frutto di un diritto negato e di una ritrovata libertà, anche se altrove, non nella mia terra».

Credi nella possibilità di una svolta democratica in Iran a breve termine?

«Molti sostenevano un paio di anni fa che l’undici febbraio, anniversario della nascita della Repubblica islamica, sarebbe stato l’ultimo giorno del regime. Il movimento dei giovani “verdi”, dal colore scelto alle elezioni politiche da  Hossein Moussavi, capo dell’opposizione, è divenuto sempre più grande e inarrestabile la protesta, ma il cammino della liberazione non è ancora concluso, la strada è lunga e tortuosa, tuttavia  la democrazia rimane il fine supremo e conquistarla ci ripagherà delle sofferenze patite».

La protesta ha un programma politico?

«Tra gli slogan della gente non vi sono rivendicazioni economiche perché tutto è nulla al confronto della libertà. Certamente la gente sa che l’Iran è un paese ricco di petrolio e gran parte delle risorse sono concentrate sul nucleare, anziché programmare un’auspicata redistribuzione delle ricchezze».

Come vedi il dopo Ahmadinejad?

«Il movimento di Hossein Mousavi, un architetto, già Primo Ministro nel quinto governo della Repubblica islamica d’Iran, dall’81 all’89, che è stato primo ministro con Khomeini e per due volte si è dimesso, continua ad essere, per me,  la vera alternativa al regime. Mousavi, candidato alle ultime elezioni presidenziali del giugno 2009, elezioni truffa, che hanno riconfermato Ahmadinejad per l’azione del Ministro degli Interni Sadegh Mahsuli, che ha pesantemente interferito con il regolare andamento elettorale, falsificando i voti, chiedeva che venissero introdotte serie modifiche, grandi riforme volte alla trasformazione della Repubblica islamica in Repubblica democratica. Moussavi ha lasciato che a parlare fosse il popolo per le strade. Ci vorrà del tempo ancora ma il processo di liberazione è innestato, è irreversibile, non si tornerà più indietro. Il popolo senz’armi è mille volte più forte dei loro fucili, la rivoluzione, come in altri Paesi del Medio Oriente e Nord Africa, corre in rete e si riversa nelle piazze e loro non possono farci nulla».

 

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Paola Milli

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