“Le cose sono sempre semplici” faceva dire Sciascia al suo Candido Munafò. Cogliendo un’attitudine che certo non è solo italiana, ma, in uno specifico modo, è molto italiana. Semplificare è proprio di chiunque, per comprendere, si affida più all’empirìa che alla speculazione, all’osservazione più che alla deduzione. Prediligendo la parola orale rispetto a quella scritta, il discorso al testo, la sintesi all’analisi. Pertanto, storicamente, tende ad essere l’attitudine propria dell’uomo comune, dei ceti più umili, delle persone semplici, appunto. Che non hanno studiato, o hanno studiato poco o male, e tuttavia sanno, riescono ad intendere le cose del mondo. A loro modo, per quanto a loro serve, che poi è quello che conta. Ma sanno.
Agli italiani questa capacità viene dalla loro lunghissima storia, dal nascere in una società evoluta e multiforme, com’era già quella dell’antica Roma, e dall’avere poi attraversato tutte le forme sociali, tutti i crolli e le ricostruzioni politiche, le scomposizioni e le ricomposizioni culturali che da allora si sono succedute nel mondo. Tutto quello che è successo noi non l’abbiamo solo studiato e interpretato nelle menti dei nostri uomini geniali: l’abbiamo, essenzialmente, unicamente, vissuto nella carne del nostro popolo.
Così, quell’attitudine alla pronta e sana semplificazione, alla comprensione dei fenomeni complessi noi l’abbiamo elaborata giorno per giorno, casa per casa, da una contrada all’altra, per farne familiare cifra di comportamento quotidiano, canone di sicuro orientamento etico e morale, arnese per decidere e scegliere al riparo dell’uscio. E ne abbiamo fatto uno specifico tratto nazionale. L’attitudine popolare alla semplificazione, negli italiani, proprio per quella storia, per essere stati dirimpettai di Imperatori romani, romano-barbarici, cristiani, Papi, Re, Principi, Signori, Dogi, Viceré, per avere convissuto con varie grandi religioni, per avere visto nascere e morire legioni, comuni, repubbliche, regni, per avere subìto invasioni e saccheggi, guerre e rivoluzioni, per avere dunque vissuto il potere e suo tragico esercizio con un’intensità e varietà che non hanno l’eguale in nessun altro popolo, si è sviluppata in un modo tutto nostro, declinandosi come prezioso e naturale strumento difensivo.
Semplificando abbiamo imparato a difenderci da eserciti, da conflitti religiosi, da sottomissioni che parevano perenni. E da ogni dottrina che ha preteso di spiegare troppo. Su questo come sull’altro mondo. Senza sconfessare mai apertamente, senza mai distruggere, ma aggirando, a volte sabotando, sempre forti dell’altrui insopprimibile caducità.
Per esempio: il “Franza o Spagna purchè se magna”, che nella tradizionale interpretazione è suggello di abiezione servile e di disimpegno etico e politico, ad un’osservazione meno distante, più empirica, potrebbe essere l’espressione profonda e consapevole di verità complesse, consegnate ad un motteggio apparentemente irresponsabile ma, a ben vedere, frutto di una comprensione avanzata della realtà, che ha già scontato, saggiamente scartandole, tutte le tentazioni di speculazioni dottrinarie: se incalza la fame, la peste, la carestia e non c’è alla viste alcun plausibile “sbocco politico”, captato nella forma immediata e “semplice” di un condottiero forte e vittorioso, anziché smarrirci e disperderci nella metafisica, si resiste, ci si mantiene nella fisica, perché vivere anzichè morire non è questa banalità che si vuol far credere. Specie se a volerla far credere è chi vive ben oltre ogni morso della fame. Sembra cinismo ma è solo rodata, e tanto rodata da parere innata, capacità difensiva. O, se volete, poichè il cinismo vaccina da ogni lusinga dottrinaria, che può farsi sclerotico precetto teologico come visionario sermone ideologico, è un cinismo difensivo, prudenza smagata.
Ora, nel tempo contemporaneo, moderno, per alcuni post-moderno, la predilezione per la parola pronunciata su quella scritta e letta si è fatta predilezione per l’immagine parlante. Senz’altro fino alla rivoluzione digitale di vent’anni fa, ma ancora largamente, pure dopo. Fiumi di inchiostro, strutture pachidermiche, dotti e consacrati a spiegare, nel chiuso della loro albagia, pretesamente moderna e democratica, di fatto retriva e antipopolare, che dopo la Seconda Guerra mondiale noi eravamo diventati indissolubilmente diversi gli uni dagli altri, a profondere energie ed impegno per convincerci che eravamo sul crinale di un passo irreversibile, a rinnegare per questo radici e costumi ricevuti e condivisi da secoli. E che si scopre, alla prima occasione? Che questo popolo di impenitenti, prudenti e in quel modo cinici, nella sua quasi totalità (senza escludere derive estreme e marginali che, pur nella loro sanguinaria petulanza, non smentiscono ma confermano il rilievo) è quello descritto da Giovannino Guareschi. Lascia perciò, questo popolo, che la “grande storia" sfoghi sulla sua italianissima testa le proprie scomuniche, i propri millennaristici e verbosi deliri, sicuro che poi, quando essa, la “grande storia”, avesse preso la via dei piani bassi, quando avesse provato a penetrare nella cinta custodita dei suoi tinelli e dei suoi cortili, avrebbe dovuto sottostare alla sua paziente ed inossidabile forza livellatrice: e ridimensionarsi e semplificarsi e perdere molte delle sue penne di Pavone. Acconciandosi a vedersi rifatta sotto le spoglie, umili ma vere, di Don Camillo e di Peppone, convalidate da milioni di cinespettatori, con mariti che non mancavano una riunione di partito quanto le mogli una messa. E che, poco dopo, saranno capaci di votare divorzio e aborto osannando, a giro di posta, Karol Woityla. Per dire.
E oggi, chi ha svelato la gracilità e il sovradimensionamento insieme, di tanta pretesa analisi, di tanta “diversità antropologica”, di tanto cupio dissolvi? Rosario Tindaro Fiorello. Un italiano su due, di quelli che, con maggiore o minore intensità, guardano la televisione (ma il campione, come si dice, è molto rappresentativo) si è fermato per sentirlo parlare con la levità del suo garbo sorridente; cantare con la creativa duttilità del suo vasto repertorio imitativo-evocativo; adunare intorno a sé campioni ed etoile con la disinvoltura autorevole e riconosciuta della sua simpatia artistica. E lo ha applaudito mentre imponeva ed esibiva il suo volto pieno e denso di italiano antico: rispecchiandovisi e riconoscendovi la maschera di quella sapienza vitale che è parte non minoritaria del nostro patrimonio umano e culturale.
Pischelli, rapporti genitori-figli, crisi economica, gravezza germanica e supponenza francese, costume e tecnologia, politica e sentimento, tutto è confluito nel suo allegro artigianato unitario, diretto, comprensibile. In quel sorriso pronto ma non smodato, nello sguardo giocoso ma profondo, si sono perduti e dissolti la cupezza di uno stillicidio ingovernato, anni di supplizio pettegolo e occhiuto, l’annuncio di una fine imminente. Soloni e Cassandre, Santori, Alberti da Giussano e Guzzantesse. Ci siamo detti insieme a lui che passerà, anche questa passerà.
Semplificando. Perché “cchiù longa è a pinsata cchiù grossa è a minchiata”.
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