Dopo due settimane di incontri dal vivo e online sta per chiudere al Palazzo di Vetro dell’Onu il ventesimo Permanent Forum on Indigenous People convocato dal 19 al 30 aprile sotto l’egida dell’Ecosoc. Creato nel 2000, pochi anni dopo l’approvazione da parte della Assemblea generale dell’Onu della Dichiarazione sui diritti dei popoli indigeni, il Forum è diventato negli anni un importante punto di incontro e di discussione sul rispetto dei diritti delle popolazioni autoctone garantiti dalla Dichiarazione.
Intitolato quest’anno ”Pace, giustizia e istituzioni forti: il ruolo delle popolazioni indigene nella realizzazione degli obbiettivi per lo sviluppo sostenibile”, il raduno ha affrontato una serie di temi ambiziosi. Le sedute video sugli argomenti del giorno sono state limitate a poche ore mattutine, accompagnate da innumerevoli incontri pomeridiani e eventi paralleli, compresa la splendida mostra fotografica appesa nei corridoi del Palazzo di Vetro. E dopo il commosso omaggio alla natura di un anziano capo indiano vestito in abiti tradizionali, gli oratori si sono confrontati sui temi più concreti, dalle sfide sanitarie a quelle dei cambiamenti climatici, ma senza dimenticare la protezione dei propri diritti, dei linguaggi tradizionali e delle prospettive di sviluppo economico e sociale.
Sia pure con sfumature diverse, il Forum ha però soprattutto mandato quest’anno un messaggio nuovo e molto chiaro. Gli indigeni di tutto il mondo, troppo spesso marginalizzati o perseguitati dai governi e ignorati dall’opinione pubblica, hanno deciso di far sentire con più forza la loro voce. E di combattere con la potenza delle loro tradizioni millennarie molti dei mali che minacciano non soltanto la loro sopravvivenza, ma anche quella di tutti gli abitanti della terra.
Oratore dopo oratore, i partecipanti hanno raccontato che sono proprio quelle circa 400 mila persone, che vivono isolate nelle foreste dell’Amazzonia o tra i ghiacciai del Nord Europa, a mostrare i danni della pandemia per chi non ha accesso alle armi necessarie per combatterla. E che sono ancora loro a soffrire in maniera sproporzionata degli effetti devastanti dei cambiamenti climatici e a subire le violenze di chi vuole trasformare le foreste in cui vivono da millenni in terreni agricoli o miniere. Uno dopo l’altro, hanno lanciato un monito anche a chi non fa parte delle loro tribù per invitarli a non sottovalutare i rischi che proprio la loro fragilità sta mettendo in luce. E spiegato che il loro rispetto per la natura può offrire delle soluzioni inaspettate a chi vuole ascoltarle.
”Un gruppo già vulnerabile rischia di essere lasciato ancora più indietro”, ha messo in guardia nel suo discorso di benvenuto il segretario Generale dell’Onu, Antonio Guterres, ”Mentre stiamo lavorando per uscire dalla pandemia, dobbiamo dare la priorità all’inclusione e allo sviluppo sostenibile che beneficiano tutti”. Una parte importante della discussione, come era ovvio, e’ stata dedicata all’impatto del Covid-19 sulle popolazioni indigene più isolate e marginalizzate.
Uno dopo l’altro, gli oratori hanno descritto una situazione allarmante, che ha lasciato le popolazioni autoctone senza protezione sia nei paesi più ricchi che in quelli più poveri. Solo negli negli Stati Uniti, ha raccontato ad esempio Geoffrey Roth, uno degli oratori del Forum, il numero dei casi tra le comunità indiane è stato 1,6 volte superiore rispetto a quello dei bianchi non ispanici, quello delle ospedalizzazioni 3 volte e mezzo superiore e quello dei morti 2,4 volte maggiore. In alcune regioni della Russia, gli ha fatto eco Alexsei Tsykarev, le popolazioni indigene si sono viste negare accesso ai sistemi sanitari e alle vaccinazioni per ragioni politiche. In Finlandia, Islanda, Norvegia e Svezia, sono state spesso le frontiere a rendere problematica la risposta alla pandemia per le tribù dei Sami.
”Gli Indios brasiliani sono a rischio genocidio. Le loro comunità sono tra quelle più a rischio a causa di difese immunitarie più basse per la vita isolata in luoghi remoti e per l’accesso praticamente inesistente alle strutture sanitarie”, ha denunciato il fotoreporter brasiliano Sebastiao Salgado. Secondo il Coica, il centro per il coordinamento delle organizzazioni indigene del Bacino Amazzonico, i casi nella regione sono stati finora non meno di 40.000 e i morti circa 2500, ma le cifre sono molto probabilmente in difetto.
Ad aggravare le difficoltà è stata la mancanza di infrastrutture e sistemi di collegamento che condiziona la vita di molte popolazioni isolate non solo indigene. “Per gli Inuit, la pandemia ha rivelato che vi è ora una necessità ancora più urgente di rimediare al deficit di infrastrutture che contribuisce alla nostra vulnerabilità”, ha messo in guardia il rappresentante dell’Inuit Circumpolar Council.
Proprio il caso del Brasile, dove il presidente Bolsonaro ha inserito nel suo programma politico la previsione di un taglio ai finanziameni statali per i servizi indigeni, un congelamento dell’espansione delle riserve protette dal governo federale e il trasferimento della questione della demarcazione delle terre indigene dalla fondazione che si occupa degli indios al ministero dell’agricoltura, ha poi messo in luce un altro dei drammi per le tribù aborigene, il cosidetto ”land gabbing” da parte delle potenti multinazionali. Simbolicamente, una delle prime vittime del Covid in Brasile è stato Paulinho Paiakan, capo di una tribù Caiapo’, che per tutta la vita si era battuto contro i cercatori d’oro illegali e i taglialegna ed era riuscito a raggiungere nel 1988 un accordo col governo per sancire costituzionalmente il diritto alla terra per le 240 tribù presenti in Brasile.
Negli ultimi anni, tutte le conquiste ottenute da Paulinho hanno rischiato di vanificarsi. L’80% delle aree protette del mondo è tuttora abitato dalle tribù indigene, che da secoli sono custodi gelose della loro integrità. Mentre però, secondo della Banca Mondiale, la deforestazione delle aree abitate dagli autoctoni era stata dal 2000 al 2008 di oltre il 16% inferiore a quella delle altre aree forestali e solo dal gennaio all’agosto del 2019 gli incendi dolosi in Amazzonia sono stati del 145% più numerosi di quelli avvenuti nel 2018.
Lo scorso anno, gli incendi dolosi appiccati per impossessarsi delle terre sono ancora aumentati. ”Le nostre terre continuano a esserci rubate per scavare, tagliare alberi, esplorare le riserve di petrolio e gas, creare culture intensive e per realizzare infrastrutture su larga scala. Continuiamo a essere cacciati dai nostri territori ancestrali, e questo causa danni irreparabili alle nostre vite, le nostre culture e i nostri linguaggi. Talvolta gli assalti sono compiuti dalle forze armate degli stati, talvolta da milizie private, spesso da una combinazione delle due”, ha denunciato durante il Forum la presidente Anne Nuorgam, una donna politica finlandese che appartiere alla tribù dei Sami.
Le restrizioni imposte dalla pandemia, hanno reso più vulnerabili anche le zone amazzoniche peruviane, dove le bande armate hanno preso di mira le terre degli aborigeni per coltivare la coca. Fino ad ora, l’azione dello stato e delle forze dell’ordine per proteggere le tribù è stata in gran parte assente o insufficiente e solo pochi mesi fa sono stati uccisi due leader Catacaibo che avevano cercato invano di opporsi alle piantagioni e alla costruzione delle piste aeree illegali degli spacciatori di cocaina.
Mentre il mondo intero sta studiando le strade giuste per combattere la pandemia e il cambiamento climatico, le storie delle sconfitte degli indigeni hanno rappresentato, nei giorni scorsi, un potente invito a cercare delle soluzioni diverse. Partendo magari proprio da chi, in Alaska come in Amazzonia o in India, ha sempre messo il rispetto della natura al centro della sua cultura.