Mentre non si placano le polemiche sui migranti, sugli approdi per le ONG (e sulle assenze del vicepremier Salvini alle riunioni dei paesi dell’UE in cui si parlava proprio di “arrivi” e dell’accordo di Dublino), il 20 Giugno, in tutto il mondo, si celebra la Giornata mondiale dei Rifugiati. Una ricorrenza introdotta dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 4 dicembre 2000,in occasione del 50° anniversario della Convenzione del 1951 relativa allo status dei rifugiati (Risoluzione 55/76). Scopo dell’iniziativa “intensificare gli sforzi per prevenire e risolvere i conflitti e contribuire alla pace e alla sicurezza dei rifugiati”.
Forse vista la confusione causata da media e politici, è bene, prima di tutto, fare una precisazione: non tutti i “migranti” sono “rifugiati”. Con questo nome si indica una persona “che temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure che, non avendo cittadinanza e trovandosi fuori dal Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra” [Articolo 1A della Convenzione di Ginevra del 1951 relativa allo status dei rifugiati].
Una distinzione importante che spiega come mai degli oltre 258 milioni di persone che hanno abbandonato la propria casa per trasferirsi altrove, solo 70,8 milioni di persone sono state “sfollate con la forza” e, di queste, circa un terzo, è un rifugiato propriamente detto. A spiegare “chi” sono questi 70,8 milioni di persone è un rapporto appena pubblicato dalle Nazioni Unite, “Global Trends”, che li divide in tre gruppi principali. Il primo è costituito dai rifugiati propriamente detti: nel 2018, il numero di rifugiati ha raggiunto 25,9 milioni in tutto il mondo (dei quali 5,5 milioni sono rifugiati palestinesi affidati all'UNHCR). Il secondo gruppo è costituito dai richiedenti asilo (ma non necessariamente rifugiati): persone al di fuori del loro paese di origine e che ricevono protezione internazionale. Alla fine del 2018, i richiedenti asilo sono stati 3,5 milioni. Il terzo gruppo, 41,3 milioni, è costituito da persone “spostate” non all’estero ma all’interno dei confini del proprio paese, una categoria comunemente denominata sfollati interni.
Numeri enormi, specie se si considera che l’andamento mostra un trend crescente esponenziale: il numero attuale è il doppio di 20 anni fa; solo rispetto allo scorso anno sono 2,3 milioni in più le persone che potrebbero richiedere la qualifica di rifugiato. Ogni giorno, sono 37 mila le persone “sfollate”.
Come al solito, raramente si cercano le cause di un fenomeno nè tanto meno si cerca di risolvere il problema alla radice. Le misure adottate sono per lo più dei palliativi. Tentativi di assistere, per quanto possibile, queste persone cacciate dal proprio paese. Uno sforzo che, per le NU, si fa sempre più arduo dato che, secondi i dati dell’UNHCR, le persone che sono rientrate nel proprio paese sono solo 2,9 milioni. La stragrande maggioranza dei rifugiati resta oltre confine con difficoltà che è facile immaginare. A questo si aggiunge che i paesi in cui si trova la maggior parte dei rifugiati, di solito non sono lontani dal paese di provenienza. Per oltre i due terzi (67%) i rifugiati provengono da cinque paesi soltanto: oltre 5,6 milioni fuggono dalla Siria (dal 2011 cercano sicurezza in paesi come Turchia, Libano, Giordania, Iraq, Egitto e altri). Dopo quasi sei anni di guerra in Siria, continuano ad aumentare le vulnerabilità dei rifugiati e la povertà e l'impatto sulle comunità ospitanti continua a crescere e il finanziamento per la risposta umanitaria non è all'altezza dei bisogni. E poi l’Afghanistan – 2,7 milioni di rifugiati – subito seguito dal Sud Sudan che, con 2,3 milioni di rifugiati, rappresenta la situazione più grave nel continente africano: persone che scappano in Sudan, Uganda, Etiopia, Kenya e Repubblica Democratica del Congo (a loro si devono aggiungere 1,8 milioni di sfollati interni rimasti nel Sud Sudan). I bambini rappresentano oltre il 65% della popolazione di rifugiati dal Sud Sudan un numero enorme che lascia solo intravedere la gravità della situazione.
Anche in Myanmar la situazione è preoccupante: sono 1,1 milioni i rifugiati. E poi in Somalia, al centro di una delle peggiori crisi umanitarie del mondo moderno: vent’anni di conflitti e catastrofi ambientali (tra cui la siccità) hanno costretto un quarto dei 7,5 milioni di abitanti del paese a fuggire con un trend in continua crescita. Persone che hanno bisogno di tutto: cibo, acqua pulita, assistenza medica, educazione per i più piccoli e campi di accoglienza attrezzati. E poi Sudan, Repubblica Centroafricana, Eritrea e Burundi. Nella Repubblica Democratica del Congo i conflitti in corso causano enormi spostamenti “interni” ed “esterni” di centinaia di migliaia e migliaia di persone: solo nel 2017, sono stati circa 100.000 i congolesi fuggiti nei paesi limitrofi come profughi, a causa di attività diffuse nelle milizie, disordini e violenze, per unirsi ai 585.000 già in esilio. E nel 2018 la situazione non è migliorata: la situazione nella Repubblica Democratica del Congo (in particolare nelle zone orientali e centrali, continua a peggiorare). Oggi, la popolazione di rifugiati congolesi è tra le dieci più grandi del mondo e quasi il 55% dei rifugiati del paese sono bambini, molti dei quali attraversano i confini non accompagnati o separati.
Numeri che la dicono lunga sullo stato dei rifugiati e che dovrebbero far riflettere sulle conseguenze di certe guerre o missioni di pace. Oppure, in altri casi – come nel caso del Sud Sudan e della Somalia – sull’indifferenza dei paesi sviluppati. Se poi si volesse sapere qual’è il paese che ospita il maggior numero di rifugiati in rapporto alla popolazione, al primo posto si troverebbe un altro paese povero: il Libano (che ospita un rifugiato ogni sei abitanti).
Anche il dato sui paesi che ospitano il maggior numero di rifugiati è significativo: ai primi quattro posti troviamo ancora paesi poveri (Turchia – 3.7 milioni, Pakistan – 1,4 milioni , Uganda – 1,2 milioni – e Sudan – 1,1 milioni). Questo dato spiega le difficoltà cui devono andare incontro i governi di questi paesi spesso abbandonati dai paesi più ricchi (unica eccezione, almeno in parte, la Turchia che ha ricevuto cospicui aiuti dall’UE in cambio della promessa di frenarne il flusso verso il vecchio continente).
Per trovare il primo paese sviluppato tra quelli che ospitano il maggior numero di rifugiati bisogna scendere fino al quinto posto dove si trova la Germania (che ospita 1,1 milioni di rifugiati). Subito dopo di nuovo paesi poveri: Iran (chissà come mai quando si parla delle lotte diplomatiche che appassionano i giornali di tutto il pianeta, di questo dato non si parla mai), Libano, Bangladesh ed Etiopia.
Sembrerebbe quasi che il problema dei rifugiati che scappano da paesi poveri e si “rifugiano” in paesi poveri” non riguardasse i paesi più ricchi. Paesi come USA, Canada, Giappone, Francia, Regno Unito, Australia e molti altri occupano posizioni molto lontane dal vertice in questa classifica.
Non sorprende quindi vedere quali sono state le iniziative proposte per celebrare la Giornata mondiale del Rifugiato in Italia. L’organizzazione che fa capo all’ONU ha deciso di affrontare questo problema convocando “esponenti del mondo della cultura, dello sport e dello spettacolo” e organizzando un “programma di eventi e iniziative intorno a tre colonne portanti della cultura italiana: arte, musica e gastronomia”.“In un momento in cui prevale una narrazione negativa sui rifugiati e richiedenti asilo, ribadiamo con forza la necessità di vederli innanzitutto come persone, con il loro bagaglio di coraggio e speranze che aspettano solo una giusta accoglienza per potersi realizzare”, ha dichiarato Carlotta Sami, portavoce UNHCR per il Sud Europa.
Lo stesso giorno della pubblicazione, alla sede dell’ONU a New York, ha parlato la rappresentante negli USA dell’UNHCR, Ninette Kelley, riguardo il “Global Trends Report”. Tra i vari argomenti trattati, si è soffermata sulla situazione migratoria venezuelana, che ha già visto lo spostamento di oltre quattro milioni di suoi cittadini verso paesi confinanti quale Colombia e Perù. La Voce ha chiesto maggiori chiarimenti sulle differenze tra emigrante e rifugiato, secondo le Nazioni Unite, e perché una persona che fugge dal Venezuela è considerata un rifugiato, mentre una persona che lascia l’Eritrea mantiene lo status da emigrante (vedere dal minuto 19:40).
Tornano alla memoria le parole che avevano accompagnato la decisione di celebrare questa giornata in tutto il mondo: “Intensificare gli sforzi per prevenire e risolvere i conflitti e contribuire alla pace e alla sicurezza dei rifugiati”. Era questa la motivazione con cui era stata creata la Giornata mondiale del Rifugiato. Un modo per sensibilizzare la popolazione e sottolineare la necessità di interventi radicali (visto anche l’aumento costante del numero di rifugiati e la loro allocazione in paesi poveri).
In alcuni paesi, invece, si preferisce realizzare iniziative di “Arte, musica e gastronomia” senza concentrarsi sulle dimensioni del problema e, soprattutto, sulle cause. Nella speranza che, tra un concerto, una degustazione di prodotti tipici e una mostra, gli italiani (o gli europei) decidano di fare qualcosa di concreto per i rifugiati che vivono in alcuni tra i paesi più poveri del pianeta….