Nel giorno dell’inaugurazione della nuova ambasciata statunitense a Gerusalemme, l’ONU si ribella al massacro dei civili sulla striscia di Gaza, usando il solito – e forse unico – strumento che sembra avere a disposizione: la parola. Lunedì 14 maggio, mentre l’ambasciatore USA in Israele David Friedman ha ringraziato la “lungimiranza politica” di Donald Trump, nel discorso di celebrazione della nuova sede diplomatica di Gerusalemme, davanti a Ivanka Trump e al premier israeliano Benjamin Netanyahu, sulla striscia di Gaza si è compiuta l’ennesima tragedia.
Nella mattinata di lunedì, decine di migliaia di dimostranti palestinesi hanno iniziato a radunarsi lungo la frontiera al confine con lo stato ebraico per manifestare contro l’apertura della nuova sede statunitense in Israele, provando ad aprire delle brecce nel confine. E usando, secondo quanto riportato da alcuni testimoni oculari, pietre e molotov. I militari israeliani hanno risposto alla manifestazione senza mezzi termini: aprendo il fuoco, e provocando la morte di 55 palestinesi e il ferimento di circa 2700 persone. Il più grave massacro lungo la striscia di Gaza, dai tempi del conflitto armato del 2014.

In queste ore difficili, dove il sangue è tornato a macchiare i destini dell’annoso conflitto israelo-palestinese, l’ONU ha condannato l’eccessivo uso della forza da parte delle milizie israeliane in risposta alla manifestazione a Gaza. Il Segretario Generale ONU Antonio Guterres, nel ribadire che l’unica soluzione per il conflitto sia “quella dei due Stati”, in cui Israele e Palestina dovrebbero dimostrarsi capaci di “vivere fianco a fianco pacificamente” con “Gerusalemme capitale di entrambi”, ha espresso il proprio rammarico per il massacro di Gaza di lunedì: “Sono fortemente preoccupato”, ha detto da Vienna, dove si è anche pronunciato a favore della salvaguardia dell’accordo nucleare con l’Iran. Mentre Farhan Haq, vice-portavoce di Antonio Guterres, a una richiesta di commento de La Voce di New York ha risposto: “Il Segretario Generale è profondamente allarmato dall’escalation di violenza nei territori palestinesi occupati e dall’alto numero di palestinesi uccisi o feriti” ha scritto Haq. Evidenziando prima le responsabilità di Israele: “Le forze di sicurezza devono esercitare la massima moderazione nell’uso della forza”. E poi chiedendo “ad Hamas e ai leader della manifestazione” di essere più responsabili “in modo tale da evitare qualsiasi azione violenta e qualsiasi provocazione” in futuro. Più duro invece è stato Zeid Ra’ad al-Hussein, che dall’agenzia UN Human Rights ha scelto Twitter per evidenziare il proprio “stato di shock per l’uccisione di dozzine di persone e il ferimento di centinaia di altri a causa del fuoco israeliano”, aggiungendo che “il diritto alla vita deve essere rispettato”.

Il sangue, però, non si ferma. E il diritto alla vita, a Gaza, continua ad essere violato. In tanti, nella regione, temono ora che l’escalation possa esplodere. Con gli occhi puntati, in particolare, sulla giornata di martedì 15 maggio, quando ad Israele si festeggerà l’anniversario della fondazione dello stato ebraico. E con esso, si svolgerà anche l’ultima delle giornate di manifestazione indette da Hamas per la “Marcia del ritorno”. “Invochiamo un intervento internazionale immediato per fermare il terribile massacro”, ha reso noto, preoccupata, l’Autorità nazionale palestinese. Trovando da una parte due fidi alleati: l’Egitto, che ha espresso “forte condanna degli attacchi compiuti contro dei martiri civili, pacifici e disarmati”, e la Turchia. Il governo turco ha richiamato il proprio ambasciatore negli Stati Uniti ad Ankara, dopo l’apertura dell’ambasciata USA di Gerusalemme. E il portavoce del presidente turco Recep Erdoğan, Ibrahim Kalin, ha reso noto che “la Palestina non è sola, l’occupazione finirà e la verità e la giustizia prevarranno”, aggiungendo che “il mondo cosiddetto civilizzato” si dovrebbe “vergognare del suo silenzio di fronte a questa barbarie sistematica”.

Dall’altra parte, nel cuore di quel mondo civilizzato attaccato da Kalin, ma più isolata che in passato, c’è proprio la nazione che con l’apertura dell’ambasciata a Gerusalemme ha aperto la voragine diplomatica in corso oggi: gli Stati Uniti. La Casa Bianca si è rifiutata di chiedere a Israele di contenere la violenza. Il presidente Donald Trump ha accolto con soddisfazione e gioia l’apertura della nuova sede (“È una grande giornata per Israele”, ha twittato l’ex tycoon). Mentre l’ambasciatrice statunitense all’ONU, Nikki Haley, a New York ha brindato all’inaugurazione della sede diplomatica USA a Gerusalemme, con il collega Danny Danon: “È un giorno storico per Israele e gli Stati Uniti. Grazie per il suo importante supporto” ha detto l’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite durante l’incontro. Benedicendo l’alleanza tra Gerusalemme e Washington, e concludendo: “Le persone di Israele sono grate per la sua leadership e per quella del Presidente Trump”. E benedicendo, di conseguenza, anche la nuova fase del conflitto israelo-palestinese, in cui la soluzione dei due Stati, tanto invocata dal Segretario ONU Guterres e auspicata dalla comunità internazionale, appare sempre più lontana.