Fulmini, saette, tuoni. Come ampiamente previsto. La notizia riportata dal Washington Post e dal New York Times, secondo cui il presidente Donald Trump avrebbe pronunciato giovedì 11 gennaio la frase “Why do we want all these people from ‘shithole countries’ coming here?”, in relazione ad alcuni Paesi africani e ad Haiti, ha provocato durissime reazioni da tutto il mondo. La Casa Bianca, nonostante in un primo momento non abbia smentito la notizia, ha poi negato che Trump abbia detto quelle parole: “Il linguaggio usato da me all’incontro sul programma Daca è stato duro, ma non ho usato quel linguaggio”, ha dichiarato il Presidente. Lo ha fatto nella stessa mattinata in cui ha firmato, destino beffardo, la proclamazione del Martin Luther King Day (previsto il 15 gennaio), inseguito poi dalle domande dei giornalisti “Presidente, lei è razzista?”, “Presidente, un commento su ‘shithole countries’?” a cui non ha risposto.

Lo ha fatto però smentito da un senatore democratico, presente allo stesso incontro della discordia di giovedì 11. Dick Durbin, infatti, ha confermato la veridicità della notizia riportata dal Post e dal Times, convocando una conferenza stampa e ammettendo che “shithole countries” (letteralmente “Paesi di merda”, riferito appunto a quelli africani e ad Haiti) sia uscito dalla bocca di Trump.

Nonostante da parte dei Repubblicani le bocche siano rimaste invece cucite (pur, talvolta, senza smentire), un ambasciatore americano (John Feeley, a Panama) ha annunciato le sue dimissioni, mentre la comunità internazionale ha reagito in modo perentorio. E quella africana ha espresso il proprio sdegno: “La Missione dell’Unione Africana desidera esprimere la sua esasperazione, delusione e indignazione per il disdicevole commento fatto dal Presidente degli Stati Uniti Donald Trump”, si legge in una dichiarazione diffusa nella giornata di venerdì 12. Unione Africana che ha chiesto a Trump “scuse formali, non solo agli Africani ma anche a tutte le persone che hanno origini africane in tutto il mondo”.

Per l’Unione, infatti, la frase di Trump “va oltre qualsiasi comportamento e pratica accettabili”, in considerazione anche della realtà storica vissuta da numerosi “africani arrivati negli Stati Uniti come schiavi”. Due parole, “shithole countries” che provano come, secondo l’Unione Africana, la strada da fare sia ancora tantissima: “C’è un serio bisogno di dialogo tra l’amministrazione statunitense e i Paesi Africani”. Non solo. Ad esprimere, in una lettera (vedi foto), preoccupazione per le espressioni “oltraggiose, razziste e xenofobe” di Trump anche il gruppo di ambasciatori dei paesi africani all’ONU, che ha chiesto le scuse ufficiali al Presidente e si detto in allarme per la crescente tendenza dell’amministrazione statunitense a denigrare l’Africa e le persone di discendenza africana.
E dai vertici delle Nazioni Unite, invece, qual è stata la reazione? Durissima, ma a metà. Perché l’ONU, nel commentare la notizia sugli “shithole countries” di Trump, ha mostrato due volti ben distinti. Da una parte, a Ginevra, non hanno avuto dubbi: è stato razzismo. “Non c’è un’altra parola che può essere usata se non ‘razzista’. Se confermato e non smentito ufficialmente, si tratta di un pensiero vergognoso e scioccante” ha detto il portavoce dell’Alto Commissione per i Diritti Umani ONU Zeid Ra’ad Al Hussein, Rupert Colville. A New York, però, è stata mostrata più prudenza che sdegno. Durante il Press Briefing giornaliero con la stampa infatti, il portavoce del Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, Stephan Dujarric, ha evitato il più possibile lo scontro frontale con il presidente USA. Alle domande dei giornalisti di CNN e Al Jazeera, se Trump sia stato razzista nel dire “shithole countries”, Dujarric ha ripetuto più volte che quelle parole sono state smentite dal Presidente americano. Del video del press briefing, generalmente pubblicato online circa un’ora dopo la fine, non c’è traccia (vedi foto: alle 6.51pm, 18.51 di venerdì 12 gennaio, ancora nessuna pubblicazione del contenuto).
Ma la responsabilità del mancato attacco a Trump non è certo di Dujarric, che ha fatto bene il suo lavoro e il suo mestiere, nel cercare di fare scudo alle possibili, potenziali ritorsioni contro il Segretario ONU: “Il Segretario Generale ha già risposto sul tema dell’immigrazione con il suo discorso di ieri che invito tutti a leggere”. Proprio riguardo ad Antonio Guterres, invece, qualcosa di più si può dire, ma forse nemmeno troppo. Perché la scelta da parte del Segretario Generale Guterres di evitare lo scontro con il Presidente USA è quantomeno comprensibile. Ed è legata, ancora una volta, ai soldi.
L’amministrazione statunitense infatti, l’assegno annuale per le Nazioni Unite non l’ha ancora strappato. E dopo il taglio dei fondi di 285 milioni di dollari, già deciso da Trump a Natale dopo il no dell’Assemblea Generale allo spostamento dell’ambasciata statunitense d’Israele a Gerusalemme, le casse dell’ONU non possono permettersi nuovi scossoni. Specie da parte di chi, come appunto gli Stati Uniti, è il primo finanziatore.

“Pecunia non olet” direbbe qualche detrattore del Segretario Generale. Istinto di sopravvivenza, potrebbe viceversa commentare qualcun altro guardando con realismo alla situazione. Di certo, però, è arrivata una conferma. Che la strategia del ricatto di Trump continua a dare i suoi frutti. E non solo quella, del resto. Perché mentre l’Unione Africana si sdegna e il mondo apre gli occhi (per l’ennesima volta) a stupore per le uscite di The Donald, lo stesso The Donald poco si preoccupa delle conseguenze delle sue uscite: il cosiddetto zoccolo duro del suo elettorato non disdegna, la sua fan-base non lo abbandona e l’economia americana continua a volare.
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