“Se guerra ci sarà, sarà per il persistere di atti di aggressione come quelli di cui siamo stati testimoni ieri. Se guerra ci sarà, il regime della Nord Corea sarà completamente distrutto”. A 24 ore dal nuovo test missilistico della Corea del Nord, lanciato nella giornata di martedì 28 novembre, alle Nazioni Unite l’ambasciatrice USA Nikki Haley non le ha mandate a dire. Prima ha chiesto a tutti i Paesi “di tagliare ogni genere di legame commerciale con la Corea del Nord”. Poi ha attaccato la Cina esortandola di smettere di fare affari con il regime di Pyongyang (“Tagli la fornitura di petrolio alla Corea del Nord”). Infine ha copiato – seppur in modo, se vogliamo, più soft e diplomatico – il suo presidente Donald Trump. Durante la 72esima Assemblea Generale, il presidente USA aveva promesso che avrebbe “distrutto totalmente la Nord Corea” in caso di necessità. Nikki Haley, invece, ha assicurato che in caso di guerra (“che noi non stiamo cercando”), sarà il regime di Kim Jong Un a essere completamente distrutto. Dentro quella parola aggiunta, regime, passa un solco importante in termine di significato. Ma le parole rimangono pesanti. Nove minuti di intervento duro, spigoloso, quelli di Haley. Nove minuti che hanno modificato il trend di un Consiglio di Sicurezza che, se non fosse stato per il puntuale briefing dell’ambasciatore italiano Sebastiano Cardi sulla situazione relativa al rispetto delle sanzioni e sui lavori della commissione 1718 che proprio l’Italia presiede, sarebbe stato un’altra, l’ennesima, scialba copia di molte altre sedute.

Tanti, infatti, sono stati gli “strongly condemn” o i “condemn in the strongest terms possible” pronunciati dai membri del Consiglio di Sicurezza nei confronti della nuova provocazione targata Pyongyang. A partire dal sottosegretario alla presidenza ONU per gli Affari Esteri, Jeffrey Feltman: “Il Consiglio di Sicurezza deve fare tutto quello che è in suo possesso fare e deve creare le condizioni per l’avvio di azioni e negoziazioni diplomatiche”, ha detto nel suo intervento, evidenziando come il Segretario Generale Antonio Guterres “condanni fortemente il lancio missilistico di ieri, enfatizza la necessità di trovare una soluzione politica alla crisi” ed evidenzi “l’importanza di salvaguardare coloro che sono in difficoltà dal punto di vista umanitario all’interno della Corea del Nord”. E dello stesso avviso, con parole simili, sono stati anche gli ambasciatori di Regno Unito, Giappone, Svezia e Francia, con quest’ultima che però ha anche auspicato, attraverso le parole dell’ambasciatore François Delattre, a un possibile “inasprimento delle sanzioni”.
Russia e Cina, indirettamente – ma forse volontariamente – compatte, hanno condannato il lancio del missile balistico di martedì 28 novembre, evidenziando i risultati raggiunti con l’approvazione delle nuove sanzioni attraverso l’ultima risoluzione di settembre (la 2371) e confermando la necessità “di non utilizzare alcuna soluzione di tipo militare per risolvere la crisi in corso, perché solo un processo diplomatico può garantire una soluzione pacifica”, come ha precisato l’ambasciatore russo Vassily Nebenzia.

L’Italia, dal canto suo, è intervenuta due volte nel corso della seduta, con il suo ambasciatore Sebastiano Cardi. Nel primo intervento si è fatto luce, appunto, sul tema-sanzioni: “Ad oggi, il Comitato 1718 – quello presieduto dall’Italia che si occupa del rispetto delle sanzioni imposte dalle risoluzioni, non solo per la Corea del Nord – ha ricevuto rispettivamente 102, 89 e 31 ‘national implementation reports’, sulle risoluzioni 2270 (2016), 2321 (2016) e 2371 (2017)”. I “national implementation reports” sono dei report che ogni Stato membro delle Nazioni Unite dovrebbe presentare entro 90 giorni dall’adozione delle sanzioni, con l’obiettivo di comprovare di aver agito nel rispetto di quanto deciso dal Consiglio di Sicurezza, in questa o in quella risoluzione. Stando ai numeri presentati da Cardi, però, non tutti oggi presentano la loro documentazione entro le deadline previste. Anzi, alcuni non la presentano proprio: “Sebbene tale tasso di presentazione continui ad essere molto più elevato rispetto alle precedenti risoluzioni sulla DPRK, è opportuno ricordare che la risoluzione 2375 (2017) impone a tutti gli Stati membri di presentare i propri report entro 90 giorni dalla sua adozione, ossia entro il 12 dicembre 2017”. L’ambasciatore italiano ha poi ribadito, nel suo secondo intervento, quattro aspetti già esplorati in passato sul fronte DPRK: la necessità “che il Consiglio di Sicurezza rimanga unito e compatto per risolvere la crisi in Corea del Nord”, la volontà da parte del governo italiano di “espellere l’ambasciatore nord-coreano in Italia da Roma”, l’importanza del “rispetto delle sanzioni imposte dalle risoluzioni in vigore” e il rinnovo della “solidarietà al popolo nord-coreano, che continua a soffrire le scelte di un regime che ignora i suoi bisogni basilari, perseguendo piuttosto lo sviluppo dell’arsenale nucleari”.

Nel corso del Consiglio di Sicurezza è intervenuto anche l’ambasciatore della Corea del Sud, Cho Tae-yul (“C’è ancora una finestra aperta per la risoluzione della crisi”, ha detto in uno dei passaggi principali del suo discorso”). A mancare, però, è stato ancora una volta il rappresentante della Corea del Nord. Secondo l’Articolo 32 della Carta ONU, “Qualsiasi membro delle Nazioni Unite che non sia membro del Consiglio di sicurezza o di uno stato che non sia Membro delle Nazioni Unite, se è parte in una controversia in esame dal Consiglio di sicurezza, è invitato a partecipare, senza votare, nella discussione relativa alla disputa. Il Consiglio di Sicurezza stabilirà le condizioni che ritiene giusto per la partecipazione di uno stato che non è Membro delle Nazioni Unite”. Ma dell’ambasciatore nord-coreano, fino ad ora, non c’è mai stata traccia nonostante parte attiva del dibattito in corso. “L’ambasciatore della Corea del Nord può venire e può richiedere di farlo” ha dichiarato il presidente Sebastiano Cardi nello stakeout conclusivo a fine Consiglio di Sicurezza, rispondendo a una domanda della Voce di New York: “Finora però non lo ha richiesto, come invece è successo in passato con numerosi altri Paesi (l’ultimo, la Siria nella stessa mattinata di mercoledì, ndr)”. Ma non potrebbero o dovrebbe essere lo stesso Consiglio di Sicurezza a chiamare l’ambasciatore nord-coreano a rispondere delle proprie azioni nel corso della seduta? “No, è una richiesta che in genere arriva dal singolo Paese”, ha ribadito Cardi. Una posizione rafforzata da quanto ci è stato riferito dalla missione italiana: “La prassi consolidata è che sia il Rappresentante dello Stato membro a proporsi per intervenire al Consiglio di Sicurezza e non il contrario”.
Intanto però, tra minacce, sanzioni, risoluzioni e test missilistici, la crisi diplomatica continua. E il Palazzo di Vetro sulla Corea del Nord sembra, sempre di più, aver esaurito le proprie cartucce.