La prima sessione del Consiglio di Sicurezza ONU sotto la presidenza italiana, che durerà per l’intero mese di novembre, ha avuto come apprezzatissimo ospite d’onore Filippo Grandi, Alto Commissario dell’UNHCR. Apprezzatissimo, almeno a giudicare dai commenti e dai ringraziamenti che gli sono stati rivolti da tutti i rappresentati degli Stati membri, i quali sembrano aver sinceramente apprezzato l’iniziativa italiana di dedicare il primo meeting sotto la propria leadership al complesso e attualissimo tema dei rifugiati. In effetti, ciò che più chiaramente è emerso dal briefing è stata la quasi assoluta comunanza di intenti e valori che si è registrata nel corso della riunione, introdotta da un doveroso minuto di silenzio dedicato alle vittime dell’attentato che nei giorni scorsi ha colpito New York: tutti i Paesi membri sono stati concordi nell’esprimere riconoscenza per l’operato dell’UNHCR e nel sottolineare che, a fronte di una crisi migratoria senza precedenti da dopo la Seconda Guerra Mondiale, è necessario mettere in campo un approccio sempre più efficace e soluzioni sempre più rapide e concrete.
Un’emergenza, ha ricordato l’Alto Commissario, che coinvolge quasi 66 milioni di persone nel mondo, una cifra che, da quando nel 2009 si è tenuta l’ultima sessione del Consiglio dedicata alla crisi dei rifugiati, ha visto un drammatico incremento del 70%. Grandi ha subito ricordato la situazione critica del Bangladesh, che, al confine con il Myanmar, sta accogliendo centinaia di migliaia di Rohingya in fuga dalle persecuzioni, affrontando, da solo, il più grande movimento di popolazione degli ultimi anni. Una fotografia drammatica, ha osservato, di quanto crisi politiche, etniche e sociali irrisolte possano a loro volta scatenare crisi migratorie molto difficili da affrontare. In proposito, si sono espressi i rappresentanti permanenti di diversi Stati membri. Il francese François Delattre, dopo aver ribadito che “la grande ondata di migranti a cui assistiamo di fronte ai nostri occhi è causata da insicurezza e da un’imponente violazione dei diritti umani”, ha fatto riferimento alla necessità di osservare i tre principi chiave che dovrebbero guidare l’azione ONU: “far cessare le violenze, favorire l’intervento umanitario, e preparare il ritorno dei rifugiati ai propri Paesi d’origine”. Anche il rappresentante permanente del Regno Unito all’ONU Matthew Rycroft ha parlato del dramma dei Rohingya, sottolineando l’importanza che il Consiglio di Sicurezza agisca unito, per mandare “un messaggio unico e comprensivo alle autorità del Myanmar”.
Ma la Birmania non è l’unico esempio di crisi in corso emerso dalle parole dell’Alto Commissario. Grandi ha anche ricordato il “cataclisma” dei conflitti in Siria e in Iraq, Paesi d’origine di circa un quarto di tutti gli sfollati a livello mondiale; l’Afghanistan, che, a 16 anni dall’inizio del conflitto, vede ancora moltissimi suoi cittadini – tanti di loro in Iran – lontani dal proprio Paese. Per non parlare, poi, dei conflitti che insanguinano il Continente africano, tra cui quello della Repubblica Centroafricana o del Sud Sudan, e, in generale, di tutte le crisi meno recenti che, nel mondo, si protraggono da anni, causando un numero sconvolgente di vittime e profughi. Una drammatica carrellata rispetto alla quale Grandi non ha nascosto la propria sincera emozione, che deriva dalla sua piena adesione all’impegno, strettamente connesso al suo ruolo, ad assicurare ai tanti rifugiati condizioni di vita più accettabili, e un futuro da guardare con speranza. Ed è a questo punto del suo discorso che, rivolgendosi al Consiglio di Sicurezza, l’Alto Commissario dell’UNHCR ha chiesto icasticamente: “Siamo forse diventati incapaci di garantire la pace?”.
Una domanda solo apparentemente retorica. Perché, come hanno sottolineato anche numerosi rappresentati degli Stati membri, il compito dell’UNHCR inizia laddove quello del Consiglio di Sicurezza di garantire la pace nei contesti di crisi fallisce. Non a caso, ha raccontato Grandi, la prima richiesta che sente fare dai rifugiati in tutto il mondo non è tanto quella di cibo e generi di prima necessità, ma quella di pace e sicurezza, prerequisiti fondamentali perché gli sfollati facciano ritorno nei propri Paesi d’origine. In questo senso, dunque, nel corso del meeting si è rimarcato più volte, e da parte di più relatori, lo strettissimo legame esistente tra il ruolo del Consiglio di Sicurezza ONU e quello dell’UNHCR. Molti Paesi, in particolare, hanno espresso apprezzamento per la coraggiosa opera di riforma promossa da Grandi, e hanno sottolineato la necessità di stanziare sempre più risorse per la protezione dei rifugiati.
Un intervento, quello di Grandi, ampiamente condiviso anche dal sottosegretario agli Affari Esteri Vincenzo Amendola, che, a conclusione dei lavori, ha affermato con forza: “Non possiamo chiudere gli occhi di fronte alla sofferenza umana”. Amendola ha ribadito che l’Italia “farà la sua parte”, supportando l’UNHCR nella sua opera di dedita assistenza ai civili e ai rifugiati in tutto il mondo (“dal Myanmar alla Libia, dalla Somalia alla Giordania fino allo Yemen”), e ha sottolineato l’importanza di promuovere partnership con Paesi di origine e di transito, di contrastare il traffico di esseri umani, ma anche di affrontare le cause profonde delle migrazioni. In questo senso, il Sottosegretario ha fatto riferimento al nodo libico, diventato di grande attualità perché, negli scorsi mesi, l’Italia ha dovuto affrontare un consistente flusso migratorio dal Paese, dove – ha ricordato – è fondamentale garantire un efficace intervento umanitario per assicurare la protezione di migranti e rifugiati che vivono in condizioni critiche.
“Condizioni critiche”, naturalmente, è quasi un eufemismo: non a caso, l’accordo che Roma ha stretto con Tripoli per mettere un freno agli sbarchi è stato ampiamente criticato a causa del mancato rispetto dei diritti umani nei campi di detenzione libici. Proprio a questo proposito, Grandi ha ricordato l’indefesso impegno della sua organizzazione per migliorare le condizioni dei Paesi di origine e di transito in generale, tra cui, appunto, la Libia, e ha invitato l’ONU a lavorare con sempre maggiore dedizione per espandere le opportunità di messa in sicurezza di quel territorio e di chi vi transita.
In un’atmosfera di pieno accordo e armonia, dove tuttavia non si è mancato di rilevare difficoltà e ostacoli, è forse la questione libica quella che è parsa più problematica. E non perché le altre crisi attualmente in corso, a cominciare dal Myanmar, non siano gravi, ma perché, sul nodo libico – acclarata priorità della leadership italiana – non sembrano essere stati fatti sufficienti passi avanti. Quando lo scorso settembre Filippo Grandi giunse all’ONU, a una domanda della Voce, rispose che l’UNHCR si trovava già in Libia ed era pronta a intervenire sempre più efficacemente per garantire, in quei campi che tante volte vengono opportunamente paragonati a lager, il rispetto dei diritti umani. Lo stesso aveva confermato il ministro degli Esteri Angelino Alfano, che aveva fatto capire che la questione sarebbe stata affrontata a stretto giro. Oggi, a tre mesi di distanza, avremmo voluto chiedere conto a Grandi di quella promessa, per cercare di capire quanto in effetti le intenzioni e le istanze dell’UNHCR siano tenute in debita considerazione dal Consiglio di Sicurezza, ma non abbiamo avuto modo di sottoporgli la nostra domanda.
L’impressione, tuttavia, è che l’approccio dell’ONU e delle sue agenzie resti quello di agire prima sul fronte della soluzione politica, rimandando al suo compimento il grosso dell’intervento umanitario. Certo: è palese che la messa in sicurezza di un territorio costituisca un prerequisito importantissimo per le operazioni umanitarie; ma che fare qualora per lo scioglimento della crisi occorrano mesi, anni? In Libia, in effetti, la soluzione politica pare ancora un’oasi nel deserto. Il governo di Fayez al-Serraj rimane privo di legittimazione popolare e controllo territoriale, e diverse aree del Paese restano in balia di milizie contrapposte. Intanto, un dossier recentemente diffuso da Oxfam, pubblicato a due anni dall’adozione dell’Agenda europea sulle migrazioni, sottolinea come almeno l’84% delle persone sentite racconti di violenze e torture subite in Libia e di rotte sempre più pericolose. In questo scenario, viene da chiedersi se ci sia ancora tempo di aspettare che il pur auspicabilissimo obiettivo della pace e della stabilità diventi realtà, o se la grande e difficilissima sfida per l’UNHCR e l’ONU non sia, piuttosto, quella di riuscire a intervenire efficacemente nell’hic et nunc, prima che, per tanti, troppi rifugiati, sia troppo tardi.