Cosa cambierà alle Nazioni Unite con la nuova amministrazione Trump? Era questa la domanda che circolava (e circola ancora) da novembre tra i corridoi del Palazzo di Vetro di New York.
All’indomani dell’elezione del nuovo inquilino della Casa Bianca, le affermazioni sprezzanti del nuovo presidente sull’ONU, espressione della sua proverbiale diffidenza nei confronti delle organizzazioni internazionali, ponevano infatti molti dubbi sulle posizioni della nuova amministrazione americana rispetto alle questioni internazionali più spinose, dalla Siria alla Libia passando per l’annoso conflitto israelo-palestinese.
Per rispondere, almeno parzialmente, a tali dubbi, gli occhi di tutti sono puntati su Nikki Haley, ex governatrice del South Carolina e nuovo volto degli USA alle Nazioni Unite. Quarantaquattro anni, figlia di immigrati di origine indiane, quando nel 2011 balzò agli onori delle cronache dopo essere stata eletta alla guida del Palmetto State, Haley fu vista da molti come il “volto nuovo” del partito repubblicano, in grado di rispolverare l’immagine arrugginita della dirigenza del partito.
Tuttavia, oggi la sua assoluta inesperienza in politica internazionale lascia negli ambienti diplomatici un grande interrogativo sul suo modo di intendere il ruolo dell’ONU.
Confermata nel suo ruolo a fine gennaio, durante le audizioni al Senato Haley ha dovuto più volte contraddire alcune delle posizioni più controverse del presidente, come d’altronde hanno fatto molti suoi colleghi, prendendo per esempio le distanze su alcune affermazioni troppo “calorose” di Trump nei confronti della leadership di Putin.
Nel suo primo discorso ufficiale appena varcata la soglia del Palazzo di Vetro, Haley ha inoltre chiarito subito che il nuovo team americano avrebbe “cambiato corso”, confermando il sostegno degli USA agli alleati tradizionali ma chiarendo anche in modo perentorio che avrebbe “preso nota dei nomi” degli avversari degli Stati Uniti e “reagito di conseguenza” nei loro confronti.
Un esordio roboante ma generico, nel quale, ha aggiunto, la nuova amministrazione “mostrerà il proprio valore attraverso la propria forza”. Nelle settimane successive, Haley ha poi criticato duramente la gestione, definita “terribile”, della missione delle Nazioni Unite in Sud Sudan, ponendo l’accento sulla necessità di riformare in modo complessivo la conduzione delle altre missioni all’estero.
Ma è venerdì scorso che, opponendo il veto statunitense alla nomina del nuovo inviato ONU in Libia, ha preso la prima controversa, decisione nel segno del “nuovo corso”.
Per gestire la delicatissima situazione libica il Segretario Generale Guterres aveva scelto il palestinese Salam Fayyadin, il quale vanta un curriculum tecnico e politico di tutto rispetto: dopo essersi laureato in economia negli Stati Uniti e avere ottenuto la cattedra in Giordania, Fayyadin ha alle spalle una carriera ventennale al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca Mondiale.
Dal 2007 al 2013 è stato il leader dell’Autorità Nazionale Palestinese, dove ha rappresentato il piccolo partito centrista “Terza Via”, alternativa politica sia a Fatah sia agli estremisti di Hamas. Più che un’obiezione giustificata dalle credenziali, la ferma opposizione di Haley alla nomina di Fayyadin segnala un’inversione della posizione americana rispetto a Israele.
In proposito, le sue affermazioni sono state cristalline: “Per troppo tempo le Nazioni Unite hanno dimostrato un eccessivo pregiudizio a favore dell’Autorità Palestinese a detrimento di Israele e dei nostri alleati” ha detto, aggiungendo che gli USA “attualmente non riconoscono uno stato palestinese o supportano il segnale dato da questa nomina”.
Si tratta di un cambiamento netto rispetto alle posizioni della precedente amministrazione Obama, che invece ha avuto sempre un rapporto complicato con l’alleato israeliano (soprattutto con la leadership di Benjamin Netanyahu), resa evidente a fine dicembre, con l’astensione che ha permesso al Consiglio di Sicurezza di approvare una risoluzione di condanna degli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Un atto considerato un affronto inaccettabile da Tel Aviv.
Il ritorno a una relazione “privilegiata” con Israele ha d’altronde avuto oggi un’ulteriore conferma nel corso dell’incontro tra Donald Trump e Netanyahu.”Respingiamo le azioni unilaterali e ingiuste da parte dell’Onu contro Israele” ha tuonato l’inquilino della Casa Bianca, dopo che nei giorni passati si era dimostrato critico nei confronti degli ultimi insediamenti israeliani aprendo una frizione che, a quanto pare, oggi è rientrata.
Non bastasse, oggi Trump si è anche dimostrato aperto a ripensare all’idea dei “due popoli due stati”, prima considerata uno dei punti fermi nella strategia di pace nel conflitto israelo-palestinese, criticando infine aspramente l’accordo sul nucleare iraniano, a sua volta avversato da Tel Aviv.
Insomma, gli equilibri in Medio Oriente sembrano essere di nuovo cambiati, e presumibilmente gli USA torneranno ad appoggiare i propri alleati tradizionali dell’area, tra cui Arabia Saudita e appunto Israele. Attendiamo di vedere se tutto ciò si tradurrà in un nuovo unilateralismo anche all’ONU.