Conflitto ucraino, crisi greca e guerra civile libica. Sono solo alcune delle grandi questioni internazionali su cui l'Italia latita ormai da anni, oscillando tra apatia, paura e sudditanza rispetto alle decisioni prese dagli Stati che "contano" (o pretendono di contare ancora, come la Francia) in Europa e nel Mondo. Mentre è in corso quella che Papa Francesco ha lucidamente definito una "terza guerra mondiale a pezzi", con una miriade di conflitti che infiammano come non mai il globo, il nostro paese sembra incapace di assumersi le proprie responsabilità, autocondannandosi a un ruolo sempre più marginale nel contesto internazionale.
Ma quali sono le vere cause della triste realtà appena descritta? Chi addossa interamente la colpa ai pessimi governi degli ultimi 20 anni ha ragione solo a metà. È vero, la classe politica italiana non brilla per autorevolezza e lungimiranza, tuttavia, se oggi siamo così irrilevanti, ciò è dovuto anche a ragioni legate alla nostra storia recente.
Nel 1995, pochi anni dopo la caduta del muro di Berlino, in una famosa intervista Francesco Cossiga analizzava con straordinario acume il ruolo italiano nel corso del conflitto tra USA e URSS, spiegando le ragioni geopolitiche che rendevano l'Italia poco rilevante internazionalmente. “Noi eravamo un paese doppiamente di confine: c’era un limes esterno, con i paesi dell’Est, ma allo stesso tempo esisteva un limes interno, giacché la cortina di ferro attraversava l’Italia e la spaccava in due – «occidentali» amici dell’America e «orientali» amici dell’Unione Sovietica”, spiegava l'ex presidente picconatore, aggiungendo come in quel periodo la nostra posizione di “portaerei nel Mediterraneo” rendeva la stabilità italiana una priorità per gli Stati Uniti. Ciò comportò una relativa perdita di sovranità, ma permise all’Italia di costruirsi un ruolo particolarissimo all’interno dell’Alleanza Atlantica. “Al tempo della guerra fredda noi avevamo un grande vantaggio che oggi abbiamo perduto. Avevamo una politica estera di riferimento, quella americana e della Nato. In questo ambito, potevamo sfruttare l’utilità marginale, la rendita geopolitica di essere un paese di frontiera”.
Insomma, anche se all’epoca Cossiga la giudicava marginale, col senno di poi in quegli anni riuscimmo a guadagnare una posizione chiave, sfruttando al massimo la collocazione geografica e la nostra proverbiale ambiguità (nessuno si fidava fino in fondo di noi, né i russi né gli americani). Oggi le condizioni sono cambiate e la fatidica divisione in blocchi, che aveva paradossalmente fatto la nostra fortuna, non esiste più.
Da quel momento, di fronte allo spaesamento americano e all’emergere di nuovi equilibri europei, abbiamo perso la bussola: l'Italia non è stata capace di elaborare una strategia di politica estera a lungo termine, finendo per dimenticare quali siano i suoi stessi interessi nazionali.
A mettere la ciliegina sulla torta ci ha pensato poi il processo di unificazione monetaria, il quale ci ha tolto parti consistenti di sovranità senza che questi fossero bilanciati da vantaggi. In breve la mancanza di una politica economica autonoma ci confina alla periferia europea, deresponsabilizzando la classe politica.
Così, di fronte alle ultime sfide del mondo globalizzato, abbiamo rinunciato a prendere qualsiasi decisione indipendente, appellandoci utopisticamente alle istituzioni internazionali o peggio seguendo altri Stati nelle loro scelte sbagliate (il caso libico è eloquente).
Il risultato? La paura di prendere posizione o semplicemente di perseguire una linea coerente ha peggiorato le cose, creando un vuoto che solo noi possiamo di nuovo colmare. Non è facile: decidere costa e spesso si sbaglia. Gli ultimi governi lo sanno bene, tanto da preferire che sbaglino gli altri al posto loro.
Eppure, specialmente dopo le "primavere arabe" e la crisi che attraversa l’Unione europea, il Mediterraneo è di nuovo uno snodo fondamentale e in questo senso l’Italia è tornata ad essere quello che Cossiga definiva “paese di frontiera”, data la sua funzione di ponte tra le due sponde del continente. Oggi, di fronte a un Medio Oriente in fiamme e a migrazioni epocali, siamo esposti per primi a gravi rischi, ma abbiamo anche enormi potenzialità per trovare le soluzioni migliori. Ancora una volta l’esempio della Libia aiuta: la grandissima conoscenza che l’Italia ha del territorio libico e delle fazioni in lotta è infatti la precondizione per proporre agli americani un piano credibile di stabilizzazione del paese, utilizzando a pieno il nostro enorme potenziale di intelligence.
La bussola per orientarci si trova solo conoscendo i nostri punti di forza e debolezza e sfruttandoli a pieno, come nel corso della guerra fredda. Basterebbe prenderne atto per inaugurare una "svolta buona" in politica estera. Senza ridicole ambizioni nazionaliste, ma con la consapevolezza di essere una pedina importante nel grande scacchiere internazionale.
*Massimo Manzo, classe 1986, dopo la laurea in giurisprudenza si è convertito al giornalismo, occupandosi di divulgazione storica e relazioni internazionali. E' membro della redazione di InStoria (rivista online di Storia e informazione) e collabora con altre importanti riviste tra cui Focus.