Dovranno passare mesi prima che si possa tornare a discuterne, e presentare un testo di legge sul medesimo argomento. La bocciatura in Senato del ddl Zan su discriminazioni e violenze sessuali sottrae al panorama politico un tema che investe da vicino i diritti civili.
È probabile, forse inevitabile, che sia il prossimo Parlamento, non questo, a occuparsene, perché i tempi sono stretti e mancano le condizioni politiche per farlo. Troppo aspro il dibattito, inadeguate le motivazioni, talvolta infarcite da fake news, strumentale infine l’atteggiamento di troppi parlamentari al momento del voto. Gli obiettivi della legge si sono mescolati a intrighi e manovre.
Il testo, che unificava proposte di sinistra e di destra, forse troppe, è inciampato in un passaggio che era procedurale e di sostanza. Su di esso sono state giocate partite di metodo, di contenuto, anche estranee all’oggetto della legge. Le urla scomposte e avvilenti che hanno accolto la bocciatura erano sconvenienti e volgari in un’aula parlamentare, ma danno la misura di un’inadeguata preparazione.

È finita, per le vittime dell’odio sessuale, nel peggiore dei modi: tutti contro tutti, per ragioni spesso lontane dal merito. Cosa conteneva di così disdicevole il ddl Zan? Quali i punti complicati? Come affrontarli al meglio?Sono intervenuti davvero tutti, dai partiti alla Chiesa cattolica, e tutti hanno proposto modifiche, tanto che è stato impossibile distinguere l’intento migliorativo dai propositi di sabotaggio.
I dubbi più seri sono rimasti nell’ombra, offuscati da polemiche, scambi di accuse, anche esagerazioni. Una confusione che non ha giovato a nessuno. I sostenitori hanno esaltato, enfaticamente, la proposta come “patto di civiltà”, presentandola come nuova stagione di diritti, poi non sono riusciti a sottrarsi all’accusa di “intransigenza” di fronte al rifiuto di mediazioni. Di certo costoro (Pd e gli altri) hanno fatto male i conti. Troppi, da quella parte, hanno votato in segreto contro la legge. Evidentemente non erano convinti, o miravano ad altro.
Gli altri avevano ciascuno il proprio scopo. I critici (la Cei e i cattolici) hanno contestato che si potessero combattere le discriminazioni instaurando un clima di intolleranza verso i difensori della famiglia tradizionale: “diventerà reato dire che ai bambini servono un papà e una mamma”, hanno osservato. I detrattori (la destra di Salvini e Meloni) hanno buttato la palla in tribuna: per andare avanti, serviva altro. Cosa allora? “Tenere fuori i bambini, la libertà educativa, la teoria gender, i reati di opinione”. Infine, i transfughi (quelli di sinistra che nel segreto si sono schierati con il centrodestra in contrasto con le dichiarazioni di voto) hanno votato perseguendo interessi di bottega. Pensavano alle battaglie future (in primis, il Quirinale) e, in tempi di consensi fluidi, cercavano notorietà.
È finita con le invettive: “omofoba e vergognosa” la maggioranza (destra + fuoriusciti di sinistra) che ha bloccato la legge; “custode di virtù civiche” la sinistra che, sino alla fine, non ha consentito a mediazioni (magari opportune, e utili per portare a casa il risultato).

Sullo sfondo, non è mancato chi ne ha tratto conclusioni sulla qualità del confronto politico: il fatto che la cultura progressista sui media fosse tutta a sostegno di questi temi, perché politicamente corretti, avrebbe tolto spazio e legittimità alle opinioni diverse, quelle più conservatrici. È andata davvero così?
Il ddl Zan non mirava solo a introdurre nuove fattispecie di reato, (gli atti discriminatori e le violenze dovute a motivi sessuali), e nuove circostanze aggravanti (l’aver commesso qualsiasi altro reato per le stesse ragioni), sul solco di quanto già previsto per altre forme di odio (razziale, etnico, religioso), ma si è spinto più avanti. Opportunamente, maldestramente.
In questa avventura sul filo del rigore giuridico, e sul versante dei valori etici e di buon senso, il conflitto tra sostenitori e detrattori della legge è deflagrato, e il bandolo della matassa è sfuggito a tutti. Impossibile confrontarsi su una problematica complicata, tanto per la materia da regolare quanto per il modo di farlo. L’ordinamento affronta un compito difficile quando deve regolare delle situazioni e nello stesso tempo promuovere cambiamenti del costume civile.
Il campo affrontato con gli artt. 4 e 7 della legge è uno dei più insidiosi che la norma giuridica possa disciplinare, per ragioni differenti. Si tratta in definitiva della sensibilità collettiva, e del bisogno che l’opinione pubblica, a partire dai giovani sino agli adulti, raggiunga un livello di maggiore consapevolezza. Un obiettivo che richiede perizia e capacità di progettazione.
Di fronte alle posizioni cattoliche (la distinzione uomo-donna avrebbe potuto confliggere con la diversità sessuale), è stata proposta una norma ingenuamente e erroneamente definita “salva-idee”, come se le idee (non integranti reato) avessero bisogno di una tutela ulteriore rispetto all’art. 21 della Costituzione che sancisce il diritto alla libertà di pensiero.

La preoccupazione di tranquillizzare gli incerti ha suscitato nuovi interrogativi rimasti irrisolti, perché il testo ha introdotto una categoria giuridica sconosciuta e discutibile, per “salvare” la libertà di pensiero e però distinguerla dalle opinioni illegittime in quanto discriminanti.
Il labile confine sarebbe costituito dalle opinioni che, senza istigare esplicitamente al reato, siano però “idonee” a determinare il “pericolo concreto” che questo avvenga. Un’enunciazione tortuosa e insidiosa, declinata sui concetti di “idoneità” e “probabilità di un evento”, che rappresenta una zona grigia e sfumata, precedente a quella della responsabilità per concorso morale.
Quanto poi alla proposta di istituire nelle scuole una giornata nazionale contro l’omofobia e le altre forme d’odio sessuale, è apparso velleitario il tentativo di incrementare la riflessione nelle scuole con questo tipo di iniziative: occasionale, un po’ retorico e inevitabilmente superficiale. Così l’idea ha offerto ai detrattori lo spunto per temere che simile iniziativa servisse a scopi propagandistici, per esaltare la diversità sessuale a scapito dell’ordine “naturale” (etero) delle cose.
Per gli interventi nel mondo della scuola, è imprescindibile un’attenzione speciale, per salvaguardare il ruolo corretto della didattica. Qual è il nucleo essenziale dell’insegnamento? Quali le materie da proporre agli studenti? Come svolgere l’insegnamento perché la scuola renda più consapevoli e aiuti nella vita pratica?

Si assiste alla richiesta di introdurre nell’insegnamento sempre nuovi argomenti, sulla spinta dell’attualità. In effetti tante cose richiederebbero maggiore riflessione e si chiede alla scuola di farsene carico (per es., per rimanere al presente: il clima e l’immigrazione, la droga e il fine vita, e poi aspetti più specifici, la condizione della donna, il femminicidio, la sicurezza stradale, le armi).
Sarebbe vano, e forse deludente, ampliare a dismisura i campi di apprendimento, senza disporre di una bussola sicura per interpretare la realtà. È questa che serve perché, in qualunque situazione, tutti abbiano i mezzi intellettuali necessari e la capacità di orientarsi.
L’insegnamento, per essere utile ai singoli e giovare alla società, dovrebbe rimanere ancorato ai “fondamentali”, che sono la premessa di tutto, cioè la conoscenza, l’elaborazione del pensiero critico, lo sviluppo della capacità di orientarsi qualunque sia l’argomento. In un certo senso questi sono i “classici” irrinunziabili dello studio e della riflessione critica. Rischieremmo al contrario di sapere tutto sulle novità proposte, ma con un “vuoto” dentro: senza strumenti per interpretare il resto e affrontare il nuovo.
La vicenda del ddl Zan mostra che non tutto procede in modo lineare, né con avvedutezza, e questo approccio incrina lo sforzo di rendere effettivi i diritti, pregiudica la possibilità di coltivare ambizioni alte. Quando ci interroghiamo sul fallimento delle “iniziative di civiltà” come la lotta alle discriminazioni sessuali, per prima cosa dovremmo riflettere sul modo di affrontare simili problemi, premessa necessaria per il buon governo delle norme nei cambiamenti sociali.