Per chi non ha vissuto in prima persona il dramma di Palermo degli anni ’80 e le stragi del 92/93, tutto appare aleatorio. Un film visto con emozione del momento, ma che all’uscita dalla sala, diventa per tanti un ricordo assai lontano. Ma a chi i fotogrammi della tragedia sono invece rimasti impressi nella memoria, difficilmente l’anima si quieta.
Una ridda di funesti ricordi attanaglia la mia mente, impedendo, talvolta, di prender sonno. Il passato torna prepotentemente. Questa che racconto è la storia di un ragazzo di soli 26 anni, che per il giuramento fatto innanzi alla Costituzione e al Tricolore, si immolò per questo imbelle Stato. Giova una premessa per dire, che la Palermo degli anni ’80 per il gran numero di morti ammazzati era simile a Beirut: era più facile morire che vivere. E noi chiamati a contrastare l’esercito di Cosa nostra, che in quel periodo contava circa migliaia di adepti, eravamo una cinquantina.
I mafiosi ammazzati erano all’ordine del giorno. Addirittura in un sol pomeriggio, ben cinque morti in luoghi diversi distanti tra loro, pochi km quadrati. Insomma un pomeriggio da cani vissuto in prima persona.

I miei occhi avevano già visto i cadaveri di Pio La Torre, il suo autista, Carlo Alberto Dalla Chiesa e sua moglie Emanuela Setti Carraro. I magistrati Rocco Chinnici, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, coordinavano le nostre attività investigative.
Il “mio ragazzo”, del quale racconto la cronaca degli ultimi mesi della sua vita, era in servizio nella mia stessa sezione della Squadra mobile palermitana, diretta da Ninni Cassarà. Verso la metà del mese di agosto del 1982, un amico d’infanzia mi disse che un esponente di primo piano – capo famiglia – latitante si nascondeva in una villetta nell’agro di Ciaculli. Località teatro della mia crescita giovanile. Il latitante era uno degli uomini più fidati di Totò Riina.
Iniziai i primi accertamenti per verificare la fondatezza della notizia e in effetti localizzai la villetta. Il “mio ragazzo” quando venne a conoscenza della mia attività, volle a tutti i costi lasciare la sua pattuglia e venire nella mia. Il ricercato gli era sfuggito due volte. Cassarà l’accontentò. Quindi col “mio ragazzo” e un altro agente, iniziammo un continuo monitoraggio dell’intero agro di Ciaculli. E per farlo percorrevamo decine di km per evitare le “vedette” di Cosa nostra. Non potevamo usare la radio per comunicare con la Centrale. C’era il rischio di essere intercettati.

Salimmo sulla montagna che sovrasta Palermo e li ricavammo il nostro “rifugio” occultandoci in una macchia mediterranea. Eravamo dotati di potenti binocoli e cannocchiali (la Polizia ne era sprovvista. Un privato ce li diede in prestito). Giorni e giorni interi trascorsero: panini e acqua e a calar del sole “smontavamo”. Finalmente, verso la metà di ottobre avemmo la certezza che il ricercato era nella villa. Durante l’appostamento, fummo testimoni oculari di un omicidio in diretta. Due persone a bordo di un’autovettura con repentina manovra costrinsero il conducente di una Moto-ape a fermarsi. Uno dei due sparò a bruciapelo uccidendo il malcapitato. Noi, purtroppo non potemmo far nulla. Eravamo sul picco della montagna e l’omicidio era avvenuto nella strada sottostante.
Il primo novembre si verificò un episodio importante, che qualificava lo spessore del ricercato. Vedemmo giungere nella villetta diverse auto: contammo una dozzina di uomini. Un paio erano rimasti fuori e gli altri entrarono nella villetta. Si stava svolgendo summit di mafia. Di corsa raggiungemmo l’auto civetta occultata in un bosco per raggiungere la prima cabina telefonica e dare l’allarme. Telefonai a casa di Cassarà, ma la moglie mi rispose che era a giocare a tennis. Raggiungemmo la Squadra mobile, ma per effetto della giornata festiva, si perse molto tempo per raggruppare degli uomini capaci di fare il blitz. Noi nel frattempo ritornammo nella postazione, ma il summit era terminato. Sospendemmo il blitz.

Mercoledì 3 novembre, nonostante io avessi fatto un sopralluogo notturno, e scattato decine di foto con l’utilizzo dell’elicottero della Polizia (avevo fatto poi una gigantografia del luogo), Ninni Cassarà volle recarsi sul luogo addentrandosi nelle trazzere dell’agrumeto. Lo fece insieme al “mio ragazzo” e usando il suo Vespone. Nel fare ciò incrociarono due auto con tre individui: due di loro erano i più pericolosi killer di Cosa nostra. Mario Prestifilippo e Giuseppe Greco,”scarpuzzedda”. Il terzo era Fici Giovanni. Questi riconobbero il “mio ragazzo”, lo conoscevano ancor prima di diventare latitanti.
Il venerdì sera, il “mio ragazzo” mentre usciva di casa, vide uno dei due killer incontrati nell’agro di Ciaculli, che sostava accanto a una autovettura, una 131 Fiat/Mirafiore di colore bianco. Il segnale era palese “stai attento a quello che fai”. La mattina in ufficio mi racconta l’episodio e decido con Cassarà di non farlo intervenire al blitz, già programmato per la mattina di domenica 7 novembre. La sua risposta : “Nooo, io voglio esserci, mi è scappato due volte, voglio esserci. Eppoi ormai mi hanno visto e male che vada mi bruceranno la macchina”. Io mi opposi con tutte le mie forze.
La domenica 7 novembre 82 scattò il blitz, il “mio ragazzo” partecipò e mise le manette al capo famiglia. La sera di domenica 14 novembre, i due killer incontrati a Ciaculli, gli tesero un agguato. Gli sparano alle spalle mentre usciva da un bar posto proprio di fronte dove ora c’è l’Albero di Giovanni Falcone. In una mano aveva un panino e nell’altra le chiavi della Renault.

Il “mio ragazzo”, era un siciliano e si chiamava Calogero “Lillo” Zucchetto. La mia vita cambiò nel vedere Lillo su una lastra di marmo dell’obitorio. Eppure ero avvezzo a veder cadaveri disseminati nelle piazze e vie di Palermo. Ma l’inerme corpo di Lillo, mi sconvolse. Avevamo fatto progetti di lavoro, tant’è che il sabato mattina nel lasciare la Squadra mobile, avevo detto a lui e all’altro agente, “Lunedì venite prima, abbiamo buone probabilità di prendere il Papa (Michele Greco).
Il posto di Lillo, fu preso da un altro agente e in effetti, dopo qualche mese dalla sua morte, intercettammo due auto con dentro il “Papa”, e i due assassini di Lillo, insieme a due persone sconosciute. Ci divideva un alto cancello in ferro chiuso: li avevamo sotto tiro a non più di tre metri e noi eravamo pronti a far fuoco col mitra. Ma come capo pattuglia non diedi l’ordine di sparare. Noi non eravamo degli assassini. Le due auto a marcia indietro si allontanarono a forte velocità.
La Mobile di Palermo ha avuto 10 vittime della violenza mafiosa, e dal 1982 al 1988 cinque colleghi della mia stessa Sezione. Furono assassinati: Lillo, Beppe Montana, Ninni Cassarà, Roberto Antiochia e Natale Mondo.
Oggi ricorre il 38esimo anniversario della tua morte caro Lillo, non ti ho mai dimenticato e mai lo farò. Sei sempre dentro il mio cuore. Questa è la Storia di un giovane Galantuomo Siciliano.