La prima vittima della geopolitica è il giudizio, per parafrasare il tragediografo greco Eschilo. Nello specifico, è ormai consuetudine che la definizione di buono o cattivo affibbiata a un dato leader dipenda spesso dal rapporto di alleanza (o meno) che si ha col medesimo.
Lo insegnano i rapporti tra Casa Bianca e l’Egitto del presidente Abdel Fattah al-Sisi, ex generale dell’esercito salito al potere nel 2013 grazie a un colpo di Stato contro il Governo legittimo guidato dall’islamista Mohamed Morsi. Capo di una nazione assai popolosa (102 milioni di anime) ed economicamente prospera per gli standards nordafricani, sin dal suo esordio sulla scena politica al-Sisi ha intrecciato una fitta alleanza con gli Stati Uniti di Donald Trump. Non a caso, The Donald lo chiamò affettuosamente “il mio dittatore preferito” in occasione di un summit del G-7 in Francia (in quell’occasione l’Egitto era presente come osservatore, non facendo parte del gruppo dei sette).

Così Biden, che vuole emulare Carter facendo del rispetto dei diritti umani il marchio di fabbrica della sua politica estera, si è trovato a fare i conti con il proverbiale elefante nella stanza: un alleato fondamentale per gli equilibri regionali nel MENA (Medio Oriente e Nord Africa) che, però, all’interno dei confini domestici si comporta come un vero e proprio autocrate, processando gli oppositori o mandandoli al Creatore.
Ne sa qualcosa l’Italia con Giulio Regeni, il ricercatore brutalmente ucciso dai servizi del Cairo nell’inverno del 2016, e Patrick Zaki, dottorando egiziano dell’Università di Bologna, che da ormai due anni aspetta un regolare processo tra continui slittamenti e un lungo periodo di detenzione solo recentemente interrotto.
Proprio in qualità di Stato alleato, l’Egitto riceve annualmente circa 1,4 miliardi di dollari di aiuti da Washington, una grossa fetta dei quali è composta dagli aiuti militari. Tuttavia, alla fine dello scorso anno, il Dipartimento di Stato USA ha deciso di spezzare una tranche di 300 milioni (quasi) a metà: i primi 130 milioni sono stati regolarmente erogati a settembre. Il resto sarebbe dovuto arrivare nelle casse del Cairo a inizio febbraio, ma lo scorso 28 gennaio l’amministrazione Biden ha deciso di fermare il trasferimento per la critica situazione relativa ai diritti umani in Egitto. Gli statunitensi avevano infatti fissato una deadline per il 30 gennaio, data entro la quale Il Cairo avrebbe dovuto impegnarsi a fare del rispetto dei diritti umani una priorità, rilasciando alcuni prigionieri politici e giornalisti (alcuni dei quali imputati nel cosiddetto caso 173).
Evidentemente gli impegni presi da al-Sisi – tra cui la liberazione temporanea di Zaki – non sono stati giudicati sufficienti.

Tuttavia, proprio una manciata di giorni prima dello stop agli aiuti, da Washington era scattato il via libera del Dipartimento di Stato alla vendita di armi all’Egitto. Nella lista della spesa del Cairo ci sono 12 aerei militari da trasporto Super Hercules C-130 e relativo equipaggiamento, oltre a sistemi radar di difesa. Valore complessivo dell’operazione: 2,5 miliardi di dollari – ossia 130 milioni moltiplicati per cinque.
Beninteso, l’approvazione del Dipartimento di Stato e la notifica al Congresso non significano che il deal sia finalizzato, ma sembra improbabile che esso possa subire rallentamenti a questo punto. Secondo la diplomazia Usa, la vendita fa parte di una strategia di politica estera di Washington, uno dei cui corollari è “un continuo coinvolgimento (…) per avanzare i nostri interessi di sicurezza nazionale, tra cui affrontare le nostre preoccupazioni sui diritti umani”. Alcuni, tra cui Human Rights Watch, hanno fatto notare come parlare di diritti umani in relazione alla vendita di equipaggiamento militare non sia esattamente coerente – ma l’amministrazione Biden sembra voler tirare dritto.
L’Egitto, d’altronde, è uno Stato too big to criticize, o comunque troppo importante nella delicata trama nord-africana. A partire da Israele, dove al-Sisi lo scorso maggio ha negoziato un cessate il fuoco tra palestinesi e Israele, ricevendo il plauso di Washington. Ma anche in Libia, dove Il Cairo è tra i principali sponsors del feldmaresciallo Khalifa Haftar, assieme alla Russia di Putin. Inimicarsi l’Egitto rischierebbe di modificare gli assetti del Grande Medio Oriente a sfavore di Washington. E avrebbe perciò un costo, evidentemente superiore a 130 milioni di dollari.