Lo sai cosa c’è, caro Stefano, cara Voce di New York? Che Raffaele Cutolo sia morto come sia morto, segregato in un super-isolamento, vecchio, malato, incapace di intendere e volere, e tuttavia sottoposto a un crudele regime di carcere duro, quello del 41-bis che prevede un isolamento che ti fa uscire di testa, ecco, tutto questo non mi piace per nulla. Non mi piace per nulla che sia accaduto; che sia potuto accadere; con pochi, e isolati (nel senso che li si è isolati, e silenziati), che dicevano: così no. Così ci si comporta esattamente come coloro che si vuole combattere.
Conosco bene l’obiezione: Cutolo è un pluri-assassino; un delinquente capace di tutto; per anni è stato a capo di un sodalizio, la Nuova Camorra Organizzata, che ha insanguinato strade e piazze di Napoli e della Campania. Non c’è crimine, per quanto orrendo e infame che non abbia commesso. Tutto questo lo so bene. Ho perfino la presunzione di saperlo molto meglio e più di quanti mi fanno questi addebiti.
Immacolata Iacone, la donna che appena diciannovenne sposa Cutolo (ora di anni ne ha 57), e da lui ha una figlia grazie alla fecondazione assistita, descrive il marito ormai ridotto “a un fantasma. Nemmeno ci riconosceva più”.
Non esagera. Ho raccolto testimonianze di persone che non hanno alcun interesse a raccontare balle, che confermano la
descrizione; non sono testimonianze recenti, delle ultime ore o giornate di Cutolo.
Immacolata Iacone racconta di aver visto il marito un paio di settimane fa; sguardo assente, mente altrove: “Mi ha scambiato per mia cognata. Non sapeva nemmeno dove si trovava. Non mangiava più”.
Da luglio Cutolo era ricoverato nel reparto detenuti. Prima una polmonite che peggiora e gli procura la setticemia al cavo orale; infine la morte. E’ morto “come volevano”, dice la donna. Sarà un pensiero sbagliato, ma viene in mente l’invettiva scagliata da Antonietta Bagarella, moglie di Totò Riina. Al momento dell’arresto del marito grida: “Me l’hanno venduto!”. Chi non l’ha mai detto, ma in automatico vien da pensare a qualche altra primula rossa della Cosa Nostra; per anni e anni latitante, poi catturata, quando era ormai allo stremo fisico, e chissà, forse l’ombra del boss di un tempo.
Ma non divaghiamo. Perché Cutolo è morto “come volevano”? La risposta: “Da anni è come se avessero già scritto la sentenza di morte. Solo e isolato. Lo era da 50 anni. Era diventato l’ombra di se stesso, non sapeva più nemmeno dove si trovava, chi aveva di fronte, ma continuavano a ritenerlo pericoloso”.
Chissà che pericolo poteva costituire un uomo di ottant’anni, devastato dalla malattia, e nessun seguace all’esterno disposto a legare il suo destino a quello di Cutolo.
Una volta Pietro Grasso, in una intervista ha dichiarato che il regime carcerario previsto dal 41-bis non si applica per costringere un detenuto a parlare; però se il detenuto in questione parla, ci sono buone possibilità che il 41-bis venga revocato. E’ qui la chiave della dura detenzione patita da Cutolo?
L’ex boss di Ottaviano era ritenuto depositario di “segreti” devastanti che riguardavano le connessioni e le complicità tra la delinquenza organizzata e il potere politico. Credibilissimo. Però alcune obiezioni vanno pur fatte: tutti gli “attori” del tempo di Cutolo sono morti e sepolti da tempo. Dunque, chi ha paura, oggi, di questi segreti? E ancora: il carcere è il luogo ideale dove morire, eliminati; che tipo di “assicurazione” può aver mai stipulato Cutolo, per garantirsi salva la vita, e quella dei suoi cari?
Unire i vari punti, mettere ordine alle tessere del mosaico non è la cosa più facile. Cominciamo con un salto nel tempo. È il 17 giugno del 1983: Enzo Tortora, accusato di reati gravissimi e infamanti (spaccio, detenzione, uso di sostanze stupefacenti, affiliazione alla Camorra), viene arrestato e inizia quel lungo calvario che lo conduce a prematura morte.
Di questa vicenda sappiamo molto, quasi tutto. Manca, tuttavia, a tanti anni da quei fatti, la risposta alla quinta delle classiche domande anglosassoni che dovrebbero essere alla base di un articolo: “Perché?”.
Ho seguito “l’affaire” tra i primi. Fin dalle prime ore ho compreso che la vicenda presentava aspetti oscuri, era una grande, ignobile, storia. L’ho compreso io, lo potevano comprendere in tanti. Non è accaduto. Una verità accecante che non si è voluta vedere anzi, è stata una gara al “crucifige”.
Alla ricerca di una soddisfacente risposta al “perché” sia potuto accadere quello che è accaduto, si affonda in uno dei periodi più oscuri e melmosi dell’Italia di questi anni: il rapimento dell’assessore all’urbanistica della Regione Campania, il democristiano Ciro Cirillo da parte delle Brigate Rosse di Giovanni Senzani, e la conseguente, vera, trattativa tra Stato, terroristi e camorra di Cutolo.
Il cuore della vicenda è qui. Sono le 21.45 del 27 aprile 1981, quando le Brigate Rosse sequestrano Cirillo. Segue una frenetica, spasmodica trattativa condotta da esponenti politici della Dc, Cutolo, uomini dei servizi segreti per “riscattarlo”. Per lui si fa quello che non si volle fare per Aldo Moro.
Viene chiesto un riscatto, svariati miliardi. Il denaro viene trovato. Durante la strada una parte viene trattenuta non si è mai ben capito da chi. Anche in situazioni come quelle c’è chi si prende la “stecca”. A quanto ammonta il riscatto? Si parla di circa cinque miliardi. Da dove viene quel denaro? Raccolto da costruttori amici. Cosa non si fa, per amicizia! Soprattutto, se poi c’è un “ritorno”. Il “ritorno” si chiama ricostruzione post-terremoto, i colossali affari che si possono fare; la commissione parlamentare guidata da Oscar Luigi Scalfaro accerta che la torta era costituita da oltre 90mila miliardi di lire. Avessero dato un miliardo a ogni terremotato, sarebbero rimasti dei soldi. La ricostruzione è stata fatta solo in parte, e male; e il denaro è evaporato in mille rivoli.
Questo è il contesto. Ma quali sono i fili che legano Tortora, Cirillo, la Camorra, la ricostruzione post-terremoto? Ripercorriamoli qui i termini di una questione che ancora “brucia”. Cominciamo col dire che Tortora era un uomo perbene, vittima di un mostruoso errore giudiziario; che il suo arresto costituisce per la magistratura e il giornalismo italiano una delle pagine più nere e vergognose della loro storia. “Cinico mercante di morte”, lo definisce il pubblico ministero Diego Marmo; e aggiunge che più cercavano le prove della sua innocenza, più emergevano elementi di colpevolezza. Le abbiamo viste.
Giovanni Pandico, un camorrista schizofrenico, sedicente braccio destro di Cutolo: lo ascoltano diciotto volte, solo al quinto interrogatorio si ricorda che Tortora è un camorrista. Pasquale Barra detto ‘o animale: in carcere uccide il gangster Francis Turatello e ne mangia l’intestino. Con le loro dichiarazioni, Pandico e Barra danno il via a una valanga di altre accuse da parte di altri quindici sedicenti “pentiti”: curiosamente, si ricordano di Tortora solo dopo che la notizia del suo arresto è diffusa da televisioni e giornali.
Arriviamo ora al nostro “perché?” e al “contesto”. A legare il riscatto per Cirillo raccolto dai costruttori, compensati poi con gli appalti e la vicenda Tortora, non è un giornalista malato di dietrologia e con galoppante fantasia complottarda. È la denuncia, anni fa, della Direzione antimafia di Salerno: contro Tortora erano stati utilizzati “pentiti a orologeria”; per distogliere l’attenzione della pubblica opinione dal gran verminaio della ricostruzione del caso Cirillo, e la spaventosa guerra di camorra che ogni giorno registra uno, due, tre morti ammazzati tra cutoliani e anti-cutoliani. Fino a quando non si decide che bisogna reagire, fare qualcosa, occorre dare un segnale.
È in questo contesto che nasce “il venerdì nero della camorra”, che in realtà si rivelerà il “venerdì nero della giustizia”: 850 mandati di cattura, e tra loro decine di arrestati colpevoli di omonimia, gli errori di persona. Nel solo processo di primo grado gli assolti sono ben 104. Documenti ufficiali, non congetture.
Stiamo raccontando la sceneggiatura di un film di quarta serie? Fate voi. Gli elementi tuttavia combaciano, la storia è credibile, per quanto incredibile. Ed è noto che la realtà spesso è assai più fantastica di qualsiasi fantasia.
Cediamo per un attimo a una suggestione.
Uno dei più bravi giornalisti che la televisione di Stato italiana abbia avuto si chiamava Giuseppe “Joe” Marrazzo; le sue inchieste e i suoi reportage su mafia, camorra e criminalità organizzata si studiano nelle università del giornalismo. Un campione. Memorabili i suoi servizi su Cutolo, la sorella Rosetta, la NCO. Una schiena dritta di cui si è smarrito lo stampo. E’ morto il 27 febbraio del 1985, aveva 56 anni, stroncato da un’emorragia cerebrale. La morte per cause naturali gli ha quasi sicuramente evitato una morte violenta, le sue inchieste sulla camorra lo avevano esposto a varie minacce di morte.
E’ morto anche Antonio Gava, l’esponente democristiano per anni ras incontrastato a Napoli e in Campania. Di lui e su di lui, fatti e misfatti, esiste una sterminata pubblicistica.
E’ morto anche Ciro Cirillo. Raramente ha rilasciato, dopo la sua liberazione, interviste, e di nessun significato e importanza.
Ora è morto anche Cutolo.
Immaginiamoli ora tutti e quattro: tre finalmente “liberi” di poter dire tutto quello che sanno, ammettere tutto quello che hanno fatto e lasciato fare; e il quarto che ne prende debita e scrupolosa nota.
Torniamo ora alla realtà. A parte gli inconfessabili segreti, che sopravvivono all’usura del tempo e all’uscita di scena di protagonisti, vittime, comparse, resta quello che ha detto Pietro Grasso: come viene utilizzato il 41-bis, il regime del carcere duro e speciale. Concepito per impedire i contatti dei boss in carcere con l’esterno, misura al limite giusta e opportuna, anche se fa a cazzotti con i dettami della Costituzione. Ma quando il boss non è più tale, quando “fuori” non c’è più nessuno che lo ascolta, quando l’ex boss, come Cutolo oggi, e Bernardo Provenzano ieri, è incapace di intendere e volere: cos’è il 41-bis nei loro confronti, se non una forma di tortura? E passi, ma lo si dica, lo si ammetta e riconosca.
Il cerchio così si chiude, si torna all’iniziale: non mi piace per nulla. Leonardo Sciascia ci ha spiegato che la Cosa Nostra e le altre forme di delinquenza più o meno organizzata non si combattono con la terribilità – spesso impotente – delle leggi speciali, ma con la rigorosa applicazione del diritto. Se no si diventa uguali a quelli che si vogliono contrastare. Anzi: peggio di loro.