Era la notte fra il 3 e il 4 Giugno del 1989 e quelle parole ancora oggi risuonano come un monito.
“La Democrazia è un ideale della vita umana come la libertà e il diritto. Ora per ottenerli dobbiamo sacrificare le nostre giovani vite. Lo sciopero della fame è la scelta di chi non ha scelta. Stiamo combattendo per la vita con il coraggio di morire. Caro padre, cara madre, non siate tristi, che non vi si spezzi il cuore mentre diciamo addio alla vita. Abbiamo una sola speranza, che questo permetta a tutti di vivere in modo migliore. Abbiamo una sola preghiera: non dimenticate che non è assolutamente la morte quello per cui stiamo lottando. La democrazia non è un affare che riguarda poche persone. La battaglia democratica non può essere vinta da una sola generazione…”.
Così recita uno stralcio del Manifesto degli studenti di Piazza Tienanmen.
A trent’anni di distanza dal massacro, avvenuto nella notte fra il 3 e il 4 giugno di quel 1989, ora che il Regno di Mezzo è diventato un gigante economico, temuto e al tempo stesso guardato con ammirazione da oriente e occidente, si sente spesso fra i leader politici la frase: “Su Tienanmen è tempo di voltare pagina”. E i primi a tentare di voltare pagina sono stati i leader cinesi. Sebbene la transizione della Repubblica Popolare Cinese da un’economia pianificata alla cosiddetta “economia socialista di mercato” abbia avuto inizio alla fine del 1978, con la demaoizzazione che ridisegnò progressivamente la traiettoria di sviluppo precedentemente adottata, è dopo Tienanmen che si realizza una potente accelerazione delle riforme economiche.
Deng Xiaoping, proclamando che “essere ricchi è glorioso”, ha tentato di adoperare il desiderio di ricchezza e il consumismo come “oppio del popolo” cinese. Molte volte negli anni successivi a quel 1989 lui stesso, poi Jiang Zemin e Hu Jintao, hanno spiegato che il benessere degli anni recenti è giunto “grazie” all’opera del Partito che ha fermato la rivolta sociale dei “controrivoluzionari” al suo nascere. Il massacro è stato “il male minore” per “l’enorme bene” seguito.
Dal 2013 al vertice del gigante cinese c’è Xi Jinping, detto il “cantastorie” per la sua volontà di far comprendere all’esterno quale sia la vera storia della Cina e del suo popolo. E nessun leader cinese ha mai viaggiato più di Xi Jinping così intensamente fuori dai confini nazionali: per la prima volta da molti anni la Cina pare avere bisogno di essere riconosciuta come potenza globale dalla comunità internazionale.
Eppure i “numeri” descrivono la Cina meglio che in qualunque altro modo: seconda potenza economica mondiale, una popolazione di quasi 1,4 miliardi di persone e dunque pari a quasi il 20 % della popolazione mondiale e una crescita media del PIL oggi “rallentata” al 6,6% rispetto agli ultimi 20 anni in cui era cresciuta mediamente del 10% e che aveva toccato il suo massimo storico dell’11,8% nel 2007.
Nessun paese al mondo, né gli Stati Uniti, prima potenza mondiale, né l’Unione Europea, nano politico ma gigante economico, potevano rimanere indifferenti.
Dopo aver adottato una serie di misure restrittive, tra cui l’embargo alla vendita di armi alla Cina a seguito dei raccapriccianti fatti di Piazza Tienanmen, l’UE, al centro dei processi di globalizzazione e in piena fase di allargamento ricomincia, pian piano a dialogare con l’impero cinese, sebbene si tratti per lo più di dialogo economico. E l’Italia segue man mano.
I dati del commercio bilaterale indicano una continua crescita e una riduzione del deficit commerciale italiano. L’interscambio tra Italia e Cina nel 2017 è stato di 42 miliardi di euro, in crescita del 9,2% rispetto all’anno precedente. Il deficit commerciale italiano si è ridotto di 1,37 miliardi di euro, a quota 14,9 miliardi di euro, con una crescita delle esportazioni del 22,2% rispetto all’anno precedente, a quota 13,5 miliardi di euro, mentre le importazioni sono salite a quota 28,4 miliardi di euro, in crescita del 4% rispetto al 2016.
“Un rapporto in solida crescita a cui dare nuovo impulso attraverso un aumento della fiducia politica reciproca e della cooperazione pragmatica”: è così che Pechino vede il rapporto tra Italia a e Cina all’inizio del 2019,
La Cina è oggi Paese chiave anche di quel gruppo di potenze emergenti chiamato BRICS: Brasile, Russia, Cina, India e Sudafrica. Nella celebre metafora in cui ben si sintetizza il ruolo di ciascuno dei BRICS all’interno del gruppo e nel contesto economico globale la Cina è la fabbrica del mondo, laddove l’India è il suo back-office, la Russia la stazione di rifornimento, il Brasile la sua fattoria e il Sudafrica la nuova porta d’ingresso a questo arcipelago di paesi di nuova industrializzazione. Ed è in Cina e precisamente a Shangai che è stata istituita la banca dei BRICS. E’ la New Development Bank , il cui scopo è quello di finanziare lo sviluppo sostenibile di progetti infrastrutturali in paesi con economie emergenti, che ha emesso lo scorso mese di Marzo obbligazioni per un valore complessivo di 3.000 milioni di yuan (circa 447 milioni di dollari).
Tuttavia la crescita economica cinese stride con il suo mancato sviluppo democratico. Secondo Freedom House il punteggio assegnato alla Cina in termini di diritti politici e civili oscilla fra 6 e 7 : più alto è il punteggio (e sette è il massimo) peggiore è il regime e massima la violazione dei diritti umani.
E inevitabilmente, il percorso di crescita economica verificatosi in Cina ripropone il quesito: “Il successo economico necessita della democrazia?”. Si tratta di una domanda cruciale che ricorda la nota disputa che vide protagonisti in Italia, tra gli altri, Luigi Einaudi e Benedetto Croce su liberismo e liberalismo. La storia del pensiero politico è ricca di argomenti a favore e contro il nesso tra libertà politica (stato di diritto) e libertà economica (mercato).
Sviluppo economico non significa sviluppo democratico e sviluppo sociale, così come il dialogo economico non è dialogo interculturale. Tuttavia l’apertura cinese, anche se principalmente dettata dall’interesse economico, è comunque un’“apertura” che, inevitabilmente, travalica la sfera meramente economica e tocca quella culturale, sociale, perché dà la possibilità agli individui di rapportarsi, anche se in maniera limitata, con altre realtà, con altre culture, di conoscere e quindi di contaminarsi, di accrescere la propria conoscenza attraverso lo scambio di conoscenza. La contaminazione dunque come via di accesso verso la libertà.
E interessante che un’intera regione della Cina sia stata ricostruita in scala con mattoncini Lego per simulare e prevenire dissesti idrogeologici, sia stata costruita una casa interamente alimentata da energia solare, siano stati costruiti dispositivi basati su tecnologia “turbo-switch” per l’internet fotonico, tecnologie per la diagnosi di tumori e malattie degenerative, misure per rendere più efficienti i sistemi di disinfezione delle acque reflue, cristalli per la rilevazione della materia oscura, un satellite al servizio della ricerca su fenomeni elettromagnetici. Non sono ambiziose idee da realizzare, ma progetti concreti già avviati tra università, centri di ricerca e imprese italiane e cinesi.
E forse, ancora una volta, sarà la conoscenza a fare da volano alla libertà e alla democrazia.
E la “contaminazione intellettuale” ridarà per sempre vita agli studenti di Piazza Tienanmem.