9 maggio 1978: sono le 13,30 circa quando il corpo del presidente della DC Aldo Moro viene rinvenuto nel portabagagli della famosa ”Renault4” rossa. Il corpo è attinto da nove colpi calibro 7,65 sparati da una mitraglietta ”Skorpion” ed altri due calibro 9, esplosi con una pistola. Questo il racconto ufficiale per molti anni. In realtà i colpi sono stati in tutto 12 come il notiziario della ABC sin dal 9 maggio stesso, per primo, aveva indicato su suggerimento delle autorità italiane inquirenti di allora: «According to Italian authorities, Moro was shot once in the back of the head and 11 times in the chest», riferisce il servizio di Bill Stewart (“un colpo dietro la nuca, 11 in petto”). Di 12 proiettili parlerà anche una delle perizie dell’ultima Commissione Moro: una prima serie di tre spari mentre Moro è seduto nel bagagliaio, con il busto eretto e le spalle rivolte verso l’interno, ha riferito il Reparto investigazioni scientifiche (Ris) di Roma nel settembre del 2017.
Dodici sono anche i proiettili ritrovati in un taxi il 14 aprile 1979 nel borsello consegnato ai Carabinieri da alcuni turisti americani e appartenente a Tony Chichiarelli, il falsario della criminalità e informatore dei servizi segreti italiani, estensore del falso comunicato della Duchessa del 18 aprile 1978 che in pieno sequestro depisterà tutti: brigatisti (alcuni), inquirenti e magistrati. Undici pallottole calibro 7,65 più una di grosso calibro sono infatti state ritrovate come segnali lasciati da Chichiarelli tra le molte altre cose contenute nel borsello. Per portare il corpo in via Caetani al centro di Roma, dalla prigione che oggi non si può più indicare con certezza sia stata quella di Via Montalcini, non l’unica in ogni caso, l’auto è riuscita ad attraversare la città senza incappare nei tanti posti di blocco disposti dalle forze dell’ordine. La testa sulla ruota di scorta, la posizione del corpo a destra del bagagliaio opposta a quella dei colpi e del sangue rinvenuti (lato sinistro) – segno che il corpo era stato spostato-, la barba lunga di qualche giorno, l’abito elegante di lana blu che indossava 54 giorni prima quando era stato rapito il 16 marzo 1978, giorno della strage di tre poliziotti (Raffaele Jozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi) e due carabinieri (Domenico Ricci e Oreste Leonardi). E la saliva. Quella che soltanto anni più tardi fece sancire al RIS che la morte di Moro non fu immediata: «Sugli indumenti indossati da Moro quando fu ritrovato cadavere – aveva affermato il comandante del RIS in carica, Luigi Ripani – “sul bavero sinistro della giacca dell’onorevole Moro erano presenti delle macchie biancastre. Dagli accertamenti fatti è emerso che si trattava di saliva, compatibile con la posizione in cui è stato trovato il cadavere dell’onorevole e con la circostanza che la morte non sia arrivata nell’immediatezza».

Rivendicazioni messaggi e strategie. A siglare la colonna sonora di quella mattina, la telefonata delle 12.15 poi attribuita a Valerio Morucci:
“E’ lei il professor Franco Tritta? E’ il dottor Nicolai… Di Nicolai (…) Brigate Rosse. Lei deve comunicare alla famiglia che troveranno il corpo dell’onorevole Aldo Moro in Via Caetani, lì c’è una Renault 4 rossa”.
Tritta riceve la dolorosa telefonata come assistente universitario di Moro, al tempo, naturalmente intercettato.
Nel 2015 sempre il Ris farà un’altra scoperta che consegnerà alla Commissione d’inchiesta istituita pochi mesi prima e terminata con la fine della scorsa legislatura. Un audio-prova recuperato da uno dei nastri rinvenuti nel covo brigatista di Viale Giulio Cesare a Roma dove furono arrestati, nel maggio 1979, Valerio Morucci e Adriana Faranda:
“Attenzione, messaggio numero 13 delle Brigate Rosse, Aldo Moro è stato giudicato dal tribunale del Popolo, questa mattina alle ore 12 è stato giustiziato, potete trovare il suo corpo attorno al forte di San Martino. Fine messaggio”.
L’audio-prova però non è soltanto un reperto tra i tanti rinvenuto a molti anni di distanza per la curiosità di appassionati e investigatori. Intanto nel 2013 la procura di Roma aveva aperto un fascicolo sulle dichiarazioni di due artificieri che spostarono alle 11 l’ora del ritrovamento della R4. Fascicolo di cui a oggi si sono persi gli aggiornamenti, così come quelli di altri fascicoli aperti sul caso a Roma e non ancora ufficialmente chiusi (il coinvolgimento del consulente americano dell’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga inviato dagli USA, Steve Pieczenick, e il filone sulla ‘ndrangheta di cui abbiamo trattato anche in modo inedito).

A confermare nel 2016 il dato su quest’altro orario alla Commissione Moro, sono state poi le dichiarazioni dell’ex vice segretario del PSI – il partito della trattativa durante il sequestro- Claudio Signorile, chiamato alle 9 del mattino quel giorno da Cossiga per un “caffé”. Proprio alle 11, Signorile, mentre si trova nell’ufficio dell’ex Presidente, apprende insieme a lui via telefono, la notizia del rinvenimento del corpo di Moro. Un dato accertato in seguito, tra gli altri, è invece l’ora esatta della morte del Presidente DC stabilita già dalla prima perizia fra le 6 e le 7 del mattino che smentisce le dichiarazioni sull’orario dell’uccisione riferite con gli anni dai BR. Anche la ABC, nel servizio riportato sopra, parlava già il 9 maggio di morte risalente a 10-24 ore prima rispetto al ritrovamento («Medical reports indicate he died no less than 10, no more than 24 hours ago»). Resta da spiegare come fosse possibile che le perizie il 9 maggio stesso fossero già state svolte e rese note, pur considerando il fuso orario con gli USA.
E ancora: la presenza della Renault 4 rossa indicata in Via Caetani da diverse testimonianze, passate e recenti, già intorno alle 8 del mattino del 9 maggio 78. Ma l’audio-prova è in sé indicatore di un elemento specifico: Forte di San Martino si trova nel Mugello, a nord di Firenze, e a Firenze in un appartamento a Careggi sempre a nord della città (stessa linea d’aria del Forte sebbene punti distanti tra loro) si trovava invece il covo in cui, a rapimento in corso, si riuniva il comitato esecutivo delle Brigate Rosse, incluso quel Giovanni Senzani mai entrato nel Caso Moro. La scoperta sul covo di Firenze viene indicata nel 2000 dalla Commissione Stragi presieduta da Giovanni Pellegrino (integrazione alla relazione dal titolo: “Ultimi sviluppi dell’inchiesta sul caso Moro”).
Le “prove di rivendicazione” gettano il faro così su una diversa strategia che si muoveva al di sopra della vicenda e che sposta tutto dal solo terrorismo romano a ben altre realtà geografiche. Firenze a parte. Soprattutto dopo le recenti scoperte giornalistiche, giudiziarie e della stessa Commissione Moro che hanno rivolto le proprie indagini con risultati importanti, anche ad altre aree. Gli Stati Uniti soprattutto, ma non solo. Ma il “Caso Moro”, ovvero il Caso dell’Abbandono per eccellenza, è anche una intricata lunga storia di mappe e luoghi.
Le “rivelazioni” di Raffaele Cutolo. Di tanto in tanto tornano le dichiarazioni dell’ex boss della Nuova Camorra Organizzata (NCO), Raffaele Cutolo, a rimescolare l’agenda setting dei media. L’oggetto delle sue affermazioni definite inedite dal quotidiano Il Mattino, che firma uno “scoop” lo scorso 28 aprile, è sempre lui: Aldo Moro.
“Potevo salvare Moro, fui fermato. Aiutai l’assessore Cirillo (sequestrato dalle BR capeggiate da Senzani il 27 aprile del 1981 ndr) ma potevo fare lo stesso con lo statista. Ma i politici mi dissero di non intromettermi”. E ogni volta i media ci cascano. Non perché le affermazioni del boss mai pentitosi non abbiano un fondo abbastanza vasto di verità. Cutolo, ormai in regime di 41 bis a scontare 4 ergastoli, è in prigione dal 15 maggio 1979, dopo una prima evasione avvenuta nel febbraio del 78 qualche settimana prima del sequestro Moro. E’ durante l’evasione che gli viene richiesto di intervenire nella liberazione dell’onorevole DC. Il “Figlio di un mondo di lupi”, come lo incastonò in un articolo Avvenimenti nel 1989, rivendica il suo ruolo nella liberazione dell’assessore della DC Cirillo (tra l’altro scritto nero su bianco nel processo che ha riguardato il sequestro), e quello nella mancata liberazione di Aldo Moro appunto, sin dal 13 marzo 1989: un giorno di udienza proprio del processo Cirillo. «Durante il sequestro Moro fui invitato dai servizi segreti a darmi da fare. Andate a rileggere le carte di un vecchio processo [l’omicidio di Domenico Beneventano, consigliere comunale del pci di Ottaviano, in provincia di Napoli, avvenuto il 7 novembre 1980]. Sono stato costretto a occuparmi di Cirillo, ho trascinato le catene per tanti anni e per tanti altri». Questo aveva detto ormai 30 anni fa Cutolo e anche prima, se consideriamo le date del processo Beneventano.
Ma le informazioni che via via ha riferite Cutolo negli anni fino al 2016, con incursioni in diversi ambiti, non sono mai state diverse da questa: solo alcune volte più ricche. Le sue rivelazioni attraversano infatti la scia degli interrogatori, dei processi, le pagine dei giornali e i servizi delle trasmissioni: 1991-93 (durante una delle inchieste aperte su Moro precedenti ai successivi processi), ’94 a Mixer di Giovanni Minoli, ’98 durante il processo Pecorelli (di cui anche riferiremo presto) via via fino al 2016 quando il Corriere della sera, durante le indagini della Commissione Moro, fa uscire i contenuti del verbale di un interrogatorio. Il procuratore aggiunto di Roma Michele Prestipino e il sostituto Eugenio Albamonte, infatti, avevano interrogato Cutolo nel supercarcere di Parma dopo la segnalazione di alcuni membri della Commissione andati a trovarlo mesi prima. E’ dunque la Procura di Roma che qui si muove su un fronte investigativo aperto da più parti.
La novità qui consisteva nel fatto che a impedire politicamente la liberazione, secondo Cutolo, sarebbe stato Antonio Gava della corrente dorotea della DC, più volte ministro e nel 1994 accusato di associazione criminale di stampo mafioso (accusa dalla quale fu ampiamente assolto nel 2000).
Della stessa corrente sono i politici Nicola Lettieri e Antonio Ruffini i quali avrebbero inviato delle lettere di ringraziamento al boss della NCO per il ruolo svolto nel sequestro Cirillo. Lettieri, al tempo del rapimento Moro, era il coordinatore del Comitato di Crisi del Viminale, uno dei tre gabinetti istituiti da Cossiga.
Tre anni fa Cutolo viene anche ascoltato dal coordinatore della Dda campana, Giuseppe Borrelli, e dal pm Ida Teresi, scrive Il Mattino lo scorso 28 aprile. Sentito sempre a Parma nell’ambito dell’indagine sul percorso criminale del suo luogotenente storico, Pasquale Scotti, arrestato dopo 30 anni di latitanza nel 2015, il “lupo” Cutolo aveva ripetuto le “rivelazioni” di 30 anni fa e le successive. Dentro c’è molto di più ovviamente: c’è il ruolo della ‘ndrangheta costola della NCO, quello dell’avvocato Francesco Gangemi, del suo ex luogotenente anche lui legato ai servizi, Enzo Casillo, che come intermediari propongono prima la liberazione dello Statista per poi, sempre su richiesta di certe strutture che riferivano come sempre a quelle politiche, ritirarla così che Cutolo potesse da par suo ritirare la sua disponibilità. C’è anche un blitz che Cutolo stava per predisporre e le minacce alle famiglie dei Br in carcere (la NCO nasce in carcere). C’è questo e c’è molto altro come a esempio il riferimento a dei documenti in possesso dello stesso Cutolo che riguardano la trattativa. Una sorta di archivio dei segreti, alcuni dei quali ha detto Cutolo: «moriranno con me». Soprattutto c’è la mancanza di memoria a raccontare ogni volta una storia apparentemente diversa come se a ripeterla possa diventare ogni volta meno pericolosa o veritiera, invece di fissarla ormai nel racconto sparpagliato della verità storica.
Il Contesto. Fra il 1976 e il 1978 il clima si fa sempre più incandescente. L’anno prima, dopo gli arresti che avevano azzerato le prime BR, si costituisce la colonna romana dell’organizzazione. Il generale Gian Adelio Maletti in un’audizione della Commissione Stragi a Johannesburg, in Sud Africa, dove è latitante dal 1981 aveva parlato di organizzazione che con l’area di sinistra non aveva nulla a che fare. E’ dal 1975 che si prepara l’Operazione Fritz (nome dato dai Br all’operazione dalla striscia bianca presente sui capelli di Moro). Al clima bollente però si arriva dall’incalzare degli eventi che iniziano con la strategia dell’attenzione di Moro verso i comunisti nel 1969, prima della strage di Piazza Fontana, e che si fanno ancora più bollenti nel 1976 quando Enrico Berlinguer in una intervista a Giampaolo Pansa sul Corriere della Sera dichiara apertamente che al Patto di Varsavia preferiva la Nato, affermazione che aveva già fatto qualche mese prima al Cremlino durante il XXV congresso del PCUS parlando di pluralismo e lodando quello dei sistemi politici occidentali. E’ lì che Berlinguer, anche per paura di colpi di Stato americani, mette in campo la teoria del compromesso storico che, accolta da Moro all’insegna della politica di alternanza e condivisione (in una parola della democrazia) porterà alla morte il presidente della Dc mentre stava per essere liberato. Una consegna, un regalo ad alcuni e a qualcosa. Non al Paese.”