Due giorni fa, irritata dal mal di gola e dalla manifestazione per il clima che bloccava il centro storico di Napoli, ho pubblicato su Facebook una manciata di righe al vetriolo dal taxi che mi stava portando all’aeroporto di Capodichino. Erano chiaramente sarcastiche, ma hanno infastidito un amico virtuale convinto che il mio aver etichettato l’attivista svedese Greta Thunberg come umanoide fosse una cattiveria gratuita dovuta al suo aspetto fisico. Da sempre avida lettrice di fantascienza, semmai immagino i robot come affascinanti repliche degli esseri umani. Quel che intendevo, infatti – e che credevo non avesse bisogno di spiegazioni o giustificazioni –, era che dare un volto dolce a una campagna di questa portata, la battaglia per salvare il pianeta, poteva essere una mossa strategica di adulti scaltri. Che forse la piccola Greta, peraltro Asperger, non fosse del tutto consapevole ma un grazioso burattino di cui qualcuno tirava i fili. Nel post avevo anche scherzato sui licei italiani, a mia volta ex liceale senza prospettive di lavoro. Anche quel passaggio inoffensivo lo aveva indispettito. Bella ciao, poi, così fuori contesto, mi aveva colpito. Ça va san dire, l’inopportuna ero io perché avevo osato mettere in discussione il canto partigiano per eccellenza.
In meno di cento battute tra il serio e il faceto l’avevo insomma combinata grossa. Costretta a mettere le mani avanti, il post aveva perso smalto. Quel che doveva strappare un sorriso aveva offeso un uomo ragionevole. Quest’amico mai incontrato nella vita reale mi vide sbranata dai tifosi interisti più influenti di Twitter. Anni fa mi occupavo del lato tecnico-tattico dei big match di serie B e Lega Pro per alcune testate minori e il capo di un manipolo di blogger, donna, mi aveva soprannominata Pingu per le mie labbra carnose. Non paga, aveva diffuso la voce che i miei articoli erano frutto del lavoro di un ghostwriter, troppo complessi perché a firmarli fosse una ventenne alle prime armi. In sintesi, mignotta e raccomandata. Nessun uomo allora mosse un dito. Ero un bersaglio facile ed ero indifendibile: la mia colpa era scrivere con franchezza e non avere padrini o padroni. Com’è possibile che la povera Tiziana Cantone, ingenua protagonista di video hard poi diffusi in rete, sia diventata il simbolo delle femministe e che le stesse si siano divertite per mesi, anni sulla mia pelle? E come è possibile che Iacopo Melio, ora cavaliere della Repubblica, ironizzi sulle foibe nel silenzio generale? Quale cortocircuito frigge le sinapsi dei paladini della rete? E chi stabilisce cosa è buono e giusto e cosa è sbagliato?
Un anno fa, in pieno inverno, durante il mio viaggio in Polonia ho visitato quanto rimane del campo di Auschwitz-Birkenau. Ho scattato fotografie, mi sono commossa, ho avuto incubi ricorrenti per giorni e giorni. Ne parlai su Facebook, mio diario durante le trasferte all’estero, e un conoscente americano mi aggredì con parole pesantissime, irripetibili. La mia militanza in un partito di destra è nota, e mai l’ho nascosta. Niente del mio post sui lager rivelava però le mie posizioni, né c’erano tracce di becero negazionismo. John, che quella notte mi bloccò dopo un lungo monologo al quale non feci in tempo a rispondere, non mi perdonava il credo politico. Qualcosa di simile avvenne mesi dopo quando, dopo giorni di junk food nei bar di Las Vegas, mi sono concessa una cena francese al Trump International Hotel, unico a non avere slot machine e sale da gioco e quindi meno caotico dei resort più noti della Strip. Qualcuno mi criticò aspramente per poi eclissarsi per sempre, altri arrivarono a bloccarmi. Ben presto mi fu chiaro come la libertà di parola è riservata al gregge, e come chiunque rialzi il capo e lasci la fiumana venga imbavagliato o messo alla gogna.
Tutti sanno toccato culo di figha bianka, un messaggio signorile seguito dall’emoji di una pesca succosa, l’emoji con serpente ritto e l’emoji che nel sexting è universalmente l’eiaculazione, con allegata prova fotografica: donna bianca seminuda e sguardo inebetito da bullo di quartiere. Un post di questo tenore e un qualsiasi leghista verrebbe lapidato. I maître à penser di tutta Italia si unirebbero in un unico moto di disgusto. Razzista! Sessista! Ma l’autore è Bello Figo, al secolo Paul Yeboha, rapper italo-ghanese noto per i jeans calati e un paio di canzonette provocatorie sull’immigrazione. Derubricato il fatto a mera goliardia, influenti del web e indignados di mestiere si son fatti una risata. Claretta Petacci per Gene Gnocchi era invece una scrofa, Matteo Salvini deve essere impiccato e così via. Un professore dell’università di Padova esultò pubblicamente per la morte improvvisa di Gianluca Buonanno. La disparità di trattamento mi offende ancora, eppure ribatto con garbo a chi mi aggredisce. Anche così, però, vengo insultata. I ‘taci, fascista’, ‘copriti, zoccola’ – sono fotografa per hobby e nei miei autoscatti adoro interpretare rockstar maledette. Ma non mi era stato detto che le donne devono essere libere e indipendenti? – e il sempreverde meme di pessimo gusto su piazzale Loreto sono pane quotidiano. Non c’è spazio per alcun genere di botta e risposta costruttivo. Antonio Tajani, presidente del Parlamento Europeo, si è visto costretto al dietrofront per aver menzionato quanto di buono il fascismo lasciò in eredità all’Italia. A oltre settant’anni dalla caduta del regime, pare impossibile che non si sia maturato un distacco tale da trattare il capitolo Benito Mussolini con giudizio. Confessare di amare la patria, poi, è da perdenti. Anche l’ultimo degli ultimi, magari un compagno laureato all’università della vita, può scatenarsi, insultare e segnalare nel muto consenso di chi conta. Non serve cortesia, al diavolo dati e statistiche. L’importante è ragliare senza stecche perché nessuno guasti il coro del politicamente corretto.
E lo scenario è ormai da Black Mirror. In Toscana, la giunta regionale ha imposto di contrastare il linguaggio sessista della burocrazia con parole neutre che non offendano le donne. Immagino con un sorriso amaro un novello Ampleforth di orwelliana memoria, relegato in un cubicolo con l’osceno compito di violentare la lingua italiana, alle prese con parole inoffensive, ma ormai criminali nella cieca isteria femminista. Nella furia manichea non rimarrà nulla se non ortodossia e psicoreato, buoni e cattivi, benefattori dell’umanità e nazisti. Non si potrà più parlare, perché la ghigliottina di Mark Zuckerberg calerà sulle nostre riflessioni indipendenti mozzandoci il capo. E, nelle parole di Indro Montanelli, di fascista forse non rimarrà che la prepotenza degli intolleranti di sinistra, pronti a marchiare a fuoco chi ha scelto di non piegarsi alla tirannia del pensiero unico.
Passo e chiudo; una lunga giornata mi attende e l’amarezza è già grande. Good morning, Vietnam.