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A 40 anni dal delitto Moro, Italia senza verità ma con l’eredità dello statista

Anche Sergio Mattarella oggi dice che “la verità è inseparabile dalla libertà. Alcune verità non sono ancora del tutto chiarite o sono rimaste oscure”

Valter VecelliobyValter Vecellio
A 40 anni dal delitto Moro, Italia senza verità ma con l’eredità dello statista
Time: 7 mins read

C’è chi sostiene che tutto sommato non c’è nulla da scoprire. Non c’è nulla da sapere che già non si sappia, e comunque dell’essenziale; che da anni, e più che mai in questi giorni, in occasione del quarantennale dal rapimento e dall’uccisione di Aldo Moro, non si fa che riscaldare una minestra tutto sommato insipida e scotta. C’è chi sostiene che tutti gli avvenimenti relativi al sequestro e all’uccisione di Moro sono stati passati al setaccio; e che comunque occorre rassegnarsi a qualche “zona d’ombra”. C’è chi sostiene che del caso Moro si sono occupati cinque processi (una sesta inchiesta è ancora aperta) e almeno tre commissioni parlamentari d’inchiesta; i colpevoli del rapimento e della strage sono stati individuati, e tutti, meno uno (che vive indisturbato in Nicaragua, Alessio Casimirri) processati, condannati e hanno scontato pene variabili. I fatti, insomma, sono stati ricostruiti. C’è chi sostiene che  impazzano versioni alternative e variamente fantasiose; e che il vero mistero di questa vicenda è che dopo quarant’anni si sta ancora qui a discuterne, a cavillare, a mettere in discussione questo o quello.

Aldo Moro prigioniero delle Brigate Rosse: verrà trovato morto il 9 maggio 1978

Che dire? Invidiabile questa sicurezza, questa sicumera. Chi scrive, al contrario, proprio perché sistematicamente presta fede alle versioni e alle fonti ufficiali, ogni volta è roso da dubbi, perplessità, interrogativi: perché c’è poco da fare, se ci si assicura che si deve fare la somma di due più due, questa fa quattro e non tre o cinque. Dunque o c’è un errore in origine, e non è vero che c’è una coppia di due da sommare; oppure ci si deve rassegnare a ricavare da quella somma quattro. Dev’essere un dubbio, un interrogativo non isolato: perfino una persona prudente e che calcola le sillabe con certosina pazienza, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella dice che occorre “cercare la verità, obiettivo primario della democrazia. La verità è inseparabile dalla libertà. Alcune verità non sono ancora del tutto chiarite o sono rimaste oscure”. Anche il presidente è un inguaribile “complottista”?

Per ricapitolare: il 9 maggio di quarant’anni fa le Brigate Rosse fanno trovare in via Caetani, a Roma, rannicchiato dentro il portabagagli di una Renault rossa, il corpo di Aldo Moro: ucciso, ufficialmente, nel garage di un condominio di via Montalcini, e da lì trasportato nel cuore di Roma. Simbolica, via Caetani: equidistante tra le Botteghe Oscure, sede dell’allora Partito Comunista, e piazza del Gesù, quartier generale della Democrazia Cristiana.

9 maggio 1978, il ritrovamento del corpo di Aldo Moro nella Renault 4. (Foto ANSA)

E’ Valerio Morucci a telefonare dove il corpo di Moro può essere trovato: la famosa telefonata trasmessa da televisioni e radio mille e mille volte, al professor Franco Tritto. Alle 12.13 di quel 9 maggio di quarant’anni fa, Tritto, allievo e amico di Moro, riceve la telefonata e la ‘notizia’ che lo strazia e che mai avrebbe voluto ricevere.

Ma chi era Franco Tritto? Perché a lui Moro affida l’ultima volontà, “cioè di comunicare alla famiglia, perché la famiglia doveva riavere il suo corpo…” (così si esprime Morucci)?

In tutti questi anni si è parlato e straparlato di Moro, della ancora oscura vicenda di cui è stato vittima; del perché e del possibile come. Nessuno che si sia preoccupato di raccontarci di Tritto, la sua figura; perché ‘lui’ e non altri.

Una vistosa lacuna, e sì che la pubblicistica attorno a questa vicenda è sterminata; con i volumi pubblicati si possono riempire scaffali e scaffali. La lacuna viene ora colmata da Raffaele Marino, che di Tritto è stato allievo, amico e confidente, e per una sorta di proprietà transitiva è diventato amico dei Moro. Il suo libro Aldo Moro è vivo (pagg.129, 12,50 euro) arricchito dalle prefazioni di Maria Fida Moro (la figlia del leader democristiano) e di Luca, il nipote prediletto, è pubblicato da una agguerrita casa editrice, Ponte Sisto, che qualche anno fa ha pubblicato un altro libro prezioso Mio nonno Aldo Moro.

In realtà i libri sono due: si racconta infatti di Tritto, e del suo speciale rapporto con Moro; e si racconta del Moro uomo, professore e politico ‘liberandolo’ della gabbia di quei 55 giorni che partono dal sequestro di via Fani e si concludono con il ritrovamento del corpo a via Caetani. Il Moro di ‘prima’, insomma: che è importante capire e conoscere per poter capire e conoscere quello che accade in quei 55 giorni del sequestro, e anche ‘dopo’. Anche oggi.

In questo senso, ‘Moro è vivo’; anche se, indubitabilmente, è morto; ed è morto non solo perché lo hanno ucciso le Brigate Rosse; è morto perché non lo si è saputo/voluto, forse anche potuto salvare. Marino tratteggia la figura di Tritto, e così emerge anche Moro, lo si ‘libera’ dalla Renault rossa; gli si restituisce interezza politica e umana, lo spessore che in quei 55 giorni gli è stato negato; la dignità che meritava e merita.

Vengono messi a fuoco concetti importanti che hanno ‘segnato’ il suo fare politico: la ‘strategia dell’attenzione’ (pag. 16) ma anche ‘l’adottare la pratica dell’attenzione prima dell’azione’ (pag.57); il richiamare l’attenzione a un problema di sempre: non tanto del ‘dove’ si fa politica, ma nel ‘come’ si fa politica (pag.65) e la capacità di  vedere e pre/vedere: Moro è l’unico democristiano che presta attenzione al ’68 e si rende conto che qualcosa accade, accadrà; e cerca di capire, interpretare. Come lo stesso Tritto racconta: “Moro sapeva leggere gli eventi grazie a una innata sensibilità d’animo guidata da una sapiente pazienza che lo portava ad aspettare che i processi prendessero forma, fossero maturi. Sapeva cogliere il momento giusto senza mai forzare a situazione…” (pag.65).

La copertina della prima edizione dell'”Affaire Moro” di Leonardo Sciascia per Sellerio editore

Non ci sono un Moro prima del sequestro e un Moro durante il sequestro. Moro è sempre lui, e tra i pochi, in quei 55 giorni a comprenderlo, a dirlo è Leonardo Sciascia col suo attualissimo L’affaire Moro che tante polemiche solleva quando viene pubblicato.  O meglio: tanti lo sapevano, l’avevano capito, ma si trattava di una verità indicibile, che non doveva essere riconosciuta, non poteva essere ammessa: “Bisognava far credere, in definitiva, che quelle lettere erano state estorte o scritte sotto dettatura dei sequestratori e che comunque Moro non era lucido. E pensare che proprio in quei suoi scritti erano riconoscibili in toto non solo il pensiero e l’umanità di Moro, ma anche il garbo che lo contraddistingueva rispetto al resto della classe politica dell’epoca, e, direi, rispetto al resto degli uomini” (pag.118). E’ esattamente quello che dice Sciascia. Non c’è un Moro politico democristiano, e poi un Moro impaurito e annichilito, prigioniero delle Brigate Rosse. Il Moro uno è esattamente quello che appare come Moro due.

In un volume che raccoglie le lezioni che Moro, nel 1940, a soli 24 anni, incaricato di Filosofia del Diritto tiene all’università di Bari, si può leggere che la persona è “il principio e la fine dell’esperienza giuridica”; si sottolinea insomma l’importanza di porre l’individuo al centro dell’ordinamento statale. Ora questo concetto lo si può condividere o avversare; ma viene limpidamente esposto quarant’anni prima del sequestro, quarant’anni prima delle “lettere” che le Brigate Rosse gli consentono di scrivere e far pervenire all’esterno della cosiddetta “prigione del popolo”. Non è per paura che Moro evoca il colonnello Stefano Giovannone, capo centro del servizio segreto militare italiano a Beirut, e protagonista di spinose e “occulte” trattative con le ali più sanguinarie ed estremiste del movimento palestinese. Moro è intimamente convinto che occorre comportarsi, a volte, come Cesare quando viene rapito dai pirati: si tratta, si paga il riscatto; poi, magari, li si insegue in modo irriducibile e li si punisce. Se si può, se conviene. L’essenza del cosiddetto “lodo Moro” che ha evitato, salvo tre occasioni, che l’Italia fosse terreno di scorribanda e attentati da parte di terroristi internazionali è questa. In poche parole: andate a fare quel che volete fare in altri “giardini”. Noi vi lasciamo vivere, voi non fate troppi danni. Dura tutt’ora.

Dunque Moro è lui, perfettamente coerente con quello che è sempre stato. Forse chiamarlo “statista” è improprio. Dello Stato non ha proprio il senso. Quello lo aveva un Alcide De Gasperi. Moro è stato un notevole politico; senza il cinismo di un Giulio Andreotti, capace di ricavare un “bene” da un “male”; ma paziente in riva a un ruscello, in attesa che la corrente porti quel da monte prima o poi deve scendere a valle: “osservare, valutare, mediare per poi agire politicamente”. Sembra di leggere un manuale di tattica militare di Sun Tzu.

Moro con gli studenti

Libro per tanti versi illuminante. Scommetto che pochi sanno che è stato Moro a volere che nelle scuole venisse introdotta come materia quell’Educazione civica che poi, sciaguratamente altri ministri hanno eliminato; e ancora meno forse sanno che è stato Moro a “imporre” alla TV di stato la storica “Non è mai troppo tardi” condotta dal maestro Alberto Manzi, che consentirà a milioni di italiani analfabeti di leggere, scrivere e saper fare la loro firma. Seppe vincere resistenze che ora fanno sorridere: “Onorevole, quel Manzi è un comunista…”. E allora? Rispose serafico Moro.

Il Moro che fa “scandalo” quando in occasione dello scandalo Lockheed, nei primi giorni di marzo del 1977 pronuncia il noto discorso davanti a un Parlamento in seduta comune di cui si ricorda sempre la frase: “non ci faremo processare nelle piazze”; ma che conteneva un ammonimento di cui ancora oggi non si sa far tesoro: “C’è un rischio di involuzione verso una giustizia politica”.

Il Moro che subisce una beffa atroce, raccontata a pagina 46: “…Per la cronaca è stato ucciso delle Brigate Rosse, è l’unica persona in favore della quale non è applicata la legge per le vittime del terrorismo. Nonostante sia stata scelta proprio la data della sua morte, il 9 maggio, per la giornata della memoria che ricorda tutte le vittime del terrorismo”.

Il lettore avrà ora compreso certamente perché è un libro che merita.

In questi giorni non è il solo volume interessante uscito sul “caso” Moro. Freschissimo di stampa è Moro, il caso non è chiuso, la verità non detta, scritto a quattro mani dalla giornalista Maria Antonietta Calabrò e dal presidente della seconda commissione parlamentare d’inchiesta Moro, Giuseppe Fioroni. Sarà il caso di parlarne fra qualche giorno.

 

 

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Valter Vecellio

Valter Vecellio

Nato a Tripoli di Libia, di cui ho vago ricordo e nessun rimpianto, da sempre ho voluto cercare storie e sono stato fortunato: da quarant'anni mi pagano per incontrare persone, ascoltarle, raccontare quello che vedo e imparo. Doppiamente fortunato: in Rai (sono vice-caporedattore Tg2) e sui giornali, ho sempre detto e scritto quello che volevo dire e scrivere. Di molte cose sono orgoglioso: l'amicizia con Leonardo Sciascia, l'esser radicale da quando avevo i calzoni corti e aver qualche merito nella conquista di molti diritti civili; di amare il cinema al punto da sorbirmi indigeribili "polpettoni"; delle mie collezioni di fumetti; di aver diretto il settimanale satirico Il Male e per questo esser finito in galera... Avrò scritto diecimila articoli, una decina di libri, un migliaio di servizi TV. Non ne rinnego nessuno e ancora non mi sono stancato. Ve l'ho detto: sono fortunato.

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