“Peppino è vivo e lotta insieme a noi, le nostre idee non moriranno mai!”. A centinaia, ogni anno, marciano da Terrasini fino a Cinisi in quel 9 di maggio. E così è stato oggi nel quarantesimo dell’assassinio di Peppino Impastato. Scandiscono slogan, sventolano striscioni, urlano quella frase diventata poi “cult”: che “la mafia è una montagna di merda”, anche titolo di un suo celebre articolo. Sono loro, i giovani, arrivati per un giorno, o cresciuti lì vicino, che insieme, nel nome di quel “militante pazzo”, colmano distanze, rispolverano ideali. Chi era Impastato agli occhi di chi non può averne ricordo? Il primo incontro forse per loro è quello con il film di Marco Tullio Giordana, I cento passi, visto a scuola, suggerito da un amico più grande. È l’ascolto della canzone omonima dei Modena City Ramblers, la stessa che monta nella scena clou della pellicola in cui Peppino (interpretato magistralmente da Luigi Lo Cascio) percorre insieme al fratello Giovanni quei cento passi che separano la loro casa da quella del boss Tano Badalamenti.
Peppino è la voce irriverente di Radio Aut, la radio libera fondata a Terrasini con i compagni nel ’77, recuperando le attrezzature da Radio Apache, emittente palermitana dei movimenti extraparlamentari passata alla storia come la radio degli “indiani metropolitani”. Ed è ai microfoni del programma “Onda Pazza a Mafiopoli” che ogni sera Impastato si prende gioco di “Tano Seduto”, il capomafia della cosca di Cinisi che vuol mettere le mani sulla costruzione del nuovo aeroporto di Punta Raisi.
La storia di Peppino è quella di un uomo libero e del suo coraggio, per anni relegato nell’ombra. Che della mafia si faceva beffe e di cui la storia stessa s’è fatta beffe a sua volta, nel giorno della sua tragica fine. E’ il 9 maggio 1978: il cadavere di Aldo Moro viene fatto ritrovare nel bagagliaio di una Renault 4 rossa, in via Caetani a Roma, crivellato di colpi. Il Paese è scosso dalla notizia dell’omicidio dello statitista della Democrazia Cristiana, che oscura la macabra morte di un ragazzo siciliano. Gran parte dei pochi quotidiani che allora dedicheranno spazio al caso Impastato si limiteranno a una lettura superficiale, avallando l’ipotesi ufficiale: suicidio o attentato terroristico. Sono i compagni, sono i famigliari, la madre Felicia, a ricercare – fin dalla primissima ora – la verità dietro la messinscena: i resti di Peppino sparsi sui binari della ferrovia, dove il 30enne si sarebbe fatto saltare in aria con una carica di tritolo, così dicono.

Ma sui binari viene adagiato. Massacrato in un casolare. Ci vogliono 23 anni prima che arrivi la condanna per il mandante dell’omicidio: l’ergastolo a Tano Badalamenti. Non un mafioso qualunque. Nato a Cinisi e poi approdato negli States, emigrato clandestinamente e rispedito in Sicilia: è nella sua terra che il vecchio boss mette a frutto l’esperienza americana per costituire la prima “commissione” mafiosa del dopoguerra. Il Badalamenti del processo “Pizza Connection”, condannato a 45 anni per traffico internazionale di droga e morto 80enne in un penitenziario del New Jersey, quel Badalamenti condannato in primo grado, con Giulio Andreotti, quale mandante di un altro omicidio: quello del giornalista Mino Pecorelli. Entrambi saranno poi assolti dalla Cassazione per il delitto.
L’omicidio Pecorelli che si lega al caso Moro. Il caso Moro che si lega al bar Olivetti a Roma, angolo via Fani, indicato dagli inquirenti quale “epicentro” del rapimento dello statista. Il bar Olivetti che tra i suoi frequentatori più assidui ha, nientemeno che, il boss di Cosa Nostra, Gaetano Badalamenti, mandante dell’omicidio Impastato.
Aldo Moro e Peppino Impastato, figure tanto diverse, che qualcuno ritiene davvero impossibile accostare. L’uno candidato di Democrazia Proletaria, l’altro a capo di un partito, la Dc, emblema di un sistema che Impastato rifiuta con forza. Ad accomunarli è una giornata, certo, ma anche il peso di una verità non detta, lunga quarant’anni. L’ombra di Gladio, che su entrambi i casi parrebbe allungarsi. Parole, visioni, ideali distanti i loro, se non in contrasto, ma egualmente scomodi per quei poteri forti che hanno voluto annientarli. Perché se la mano è probabilmente delle Br, probabilmente di Cosa Nostra, i depistaggi arrivano da personaggi più in alto: i servizi segreti italiani sono i soliti protagonisti dell’insabbiamento della verità. Nel caso di Peppino, è l’ex generale Antonio Subranni a perseguire la pista terroristica. Il Subranni condannato appena pochi giorni fa a 12 anni di detenzione nel processo sulla Trattativa Stato-mafia.

Peppino Impastato oggi vive anche nelle immagini, negli slogan, nelle note intonate da ragazzi che in maglietta e cappellino ogni nove maggio arrivano nella sua Cinisi. Per loro è difficile comprendere gli anni in cui visse, immedesimarsi nell’urgenza, nel coraggio, (qualcuno ha parlato di incoscienza) che ne guidarono i passi. Ma è altrettanto facile essere scossi da un brivido che attraversa la folla, comprendere le parole che quel giovane curioso del mondo, desideroso di cambiarlo, scrisse, pronunciò, urlò a squarciagola. Parole di libertà e di bellezza, che la sua morte non ha destinato a una sola generazione, a un solo tempo o a un solo spazio.
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