La seconda settimana di aprile, per Donald Trump, si sta rivelando sempre di più una settimana di fuoco. L’inchiesta Russiagate guidata dal procuratore speciale Robert Mueller, infatti, sta proseguendo con una nuova pista ucraina, nonostante Trump non sia penalmente coinvolto. Il raid dell’FBI nell’ufficio dell’avvocato di Donald Trump, Michael Cohen, nella giornata di martedì 10 aprile, ha scosso le difese del Presidente gettandolo letteralmente nel panico, secondo quanto riportato da Politico: un raid probabilmente focalizzato sulla raccolta di materiale in connessione con lo scandalo “Access Hollywood” e i cui risvolti potrebbero creare scalpore. E poi ancora, l’annuncio di ritiro di Paul Ryan, lo speaker della Camera al Congresso che ha deciso di non ripresentarsi nel 2018 e di lasciare la politica a fine anno, ha spiazzato molti dei Repubblicani a Washington, così come lo stesso Donald Trump: un atto visto da addetti ai lavori e analyst come un segnale negativo in vista delle elezioni di Midterm in arrivo. E infine la crisi siriana, ultima non meno importante, con l’ombra inquietante di una guerra alle porte contro la Russia, a colpi di missili annunciati e non ancora lanciati, ma anche a colpi di tweet.
La carne al fuoco, insomma, è tanta. E non è la prima volta che “The Donald” si trova nel mezzo del caos. Ma questa settimana sembra assumere dei connotati diversi dal solito. Diversi perché gli attacchi e le pressioni arrivano sulle sue spalle da ogni fronte: contro il Trump imprenditore, contro il Trump candidato, sul Trump Presidente. Proprio il presidente USA dal suo profilo personale Twitter non ha esitato, per l’ennesima volta, a raccontare tutti i suoi pensieri di queste ore difficili. Uno per uno, come gli devono essere usciti dalla testa. Un monologo interiore che ha delle conseguenze ben più pesanti però di quelli che abbiamo letto al liceo, da Italo Svevo o di James Joyce. Perché in questo caso ci sono in gioco gli equilibri di una nazione. E, forse, del mondo intero.
“Create chaos more than chaos”. “War”. “Fear”. “Fear”. “Brutal, total”. “Let’s attack their hearts”. “We can work with fear“. “Yes, we can”. Le riconoscete? Sono le frasi dello scambio di battute tra Frank e Claire Underwood, alla fine della quarta stagione della nota serie televisiva House of Cards. Frank, il presidente statunitense interpretato da Kevin Spacey, è con le spalle al muro: perseguitato da un’inchiesta giornalistica, nel pieno della campagna elettorale, inseguito dall’ombra dell’impeachment. La moglie Claire, interpretata da Robin Wright, è al suo fianco come candidata vice-presidente nella campagna elettorale per le elezioni 2016. Rischia di crollare assieme al marito e, in caso di mancata rielezione di Frank, di vedere vanificata la sua giovane carriera politica. A chi non ha visto la serie, non diciamo come va a finire la quinta stagione. Ma ci limitiamo a dire che la scelta degli Underwood in quella puntata è chiara: gettare la nazione nel caos su temi legati alla politica estera, per allontanare gli sguardi indiscreti dell’opinione pubblica dai caos personali di vita (politica) interna. Una scelta che da fiction sembra assumere sempre più i contorni della realtà. E che Donald “Frank Underwood” Trump ha dimostrato di saper fare con strategica continuità, nei suoi primi 15 mesi di presidenza.
Ma andiamo con ordine. Negli Stati Uniti lo chiamano “Twitterstorm”, letteralmente tempesta di tweet. Ha la propria origine, forse, da brainstorming, la tempesta di idee che ogni persona o gruppo di persone deve fare per gettare le basi per un progetto. In questo caso, però, la tempesta non è di idee, ma di posizioni. E di posizioni espresse direttamente sul social media, prima ancora che attraverso statement ufficiali, da parte della figura istituzionale più importante del mondo occidentale: il presidente degli Stati Uniti d’America. Si parte con il tweet del 10 aprile: “UNA TOTALE CACCIA ALLE STREGHE!”, scrive Trump contro il raid dell’FBI nell’ufficio del suo avvocato Michael Cohen. Poi, la tempesta che si fa più forte l’11 aprile. Iniziata con un messaggio in risposta a un’inchiesta del New York Times sui presunti rapporti del Presidente con un imprenditore ucraino: “Il fallimentare New York Times ha scritto un’altra storia falsa. È stato il critico politico Doug Schoen, non un imprenditore ucraino, a chiedermi di fare un breve speech al telefono (Skype), ospitato da Doug, in Ucraina. Ero molto positivo sull’Ucraina. Un altro fatto negativo su questa finta storia russa”.
Poi due tweet in fila, sul raid dell’FBI al suo avvocato e non solo, dove Trump inizia a mettere sullo stesso piano profilo personale e profilo presidenziale: “Troppe fake news che stanno andando avanti nella Casa Bianca. Tutto molto chiaro e molto calcolato, mentre il focus è sull’aperta e giusta trattativa con la Cina, il meeting in arrivo con la Corea del Nord e, ovviamente, il feroce attacco chimico in Siria. Sono felice di avere al mio fianco Bolton e Larry K. Io, noi, stiamo facendo cose che nessuno pensava possibili, nonostante l’indagine corrotta e senza fine sulla Russia, che mi toglie tempo e attenzioni. Non ci sono né collusioni né ostruzioni (altra cosa che rispedisco al mittente), così loro ora fanno l’impensabile: un RAID nell’ufficio del mio avvocato per ottenere informazioni. MALE!”. Passano alcuni minuti e l’attacco di Trump continua. Questa volta contro Russia e Siria, elogiando i missili statunitensi “carini, nuovi e intelligenti”: “La Russia promette di abbattere ogni missile sparato in Siria. Preparati Russia perché stanno per arrivare, sono carini, nuovi e intelligenti! Non dovreste essere partner di un animale che uccide con il gas e che uccide persone divertendosi!”.
E non è finita qui. Sempre 11 aprile, sempre Trump in un altro tweet: “Le nostre relazioni della Russia oggi sono le peggiori di sempre, e includendo anche la Guerra Fredda. Non c’è ragione per questo. La Russia ha bisogno di noi e del nostro aiuto per la sua economia, il che sarebbe molto semplice da fare e noi abbiamo bisogno che tutte le nazioni lavorino assieme. La fermiamo la corsa alle armi?”.
Infine gli ultimi due tweet, prima della quiete apparente. Il primo, in cui Trump connette esplicitamente il caos interno che sta vivendo nella sua vita personale e nella sua amministrazione, con il caos esterno della crisi siriana, incolpando investigatori e media: “La maggior parte del sangue con la Russia è causato dalla “fake” e corrotta indagine sulla Russia, guidata da persone leali ai Democratici o da persone che hanno lavorato con Obama. Mueller è il più coinvolto di tutti. Non hanno trovato alcuna collusione, quindi impazziscono!”. Il secondo, invece, è dedicato al ritiro di Paul Ryan, annunciato dallo speaker “per ragioni personali e familiari” in una conferenza stampa alcuni minuti prima del tweet del Presidente: “Lo speaker Paul Ryan è un buon uomo, un uomo vero, e pur non ricandidandosi lascerà un’eredità fatta di grandi risultati che nessuno può negare. Siamo con te, Ryan!”.
A questi se ne è aggiunto uno nella mattinata di giovedì 12 aprile, nelle ore in cui Mike Pompeo è stato nominato Segretario di Stato, in risposta a un articolo del New York Times secondo cui Trump avrebbe voluto le dimissioni di Robert Mueller, titolare del Russiagate, già a dicembre 2017: “Se avessi voluto licenziare Robert Mueller a dicembre, come riportato dal fallimentare New York Times, lo avrei licenziato. Sono solo nuove fake news da parte di un giornale fazioso!”.
Insomma, come potete vedere, i tweet non sono mancati. Ma le decisioni, ora, quali saranno? La crisi siriana si trova nel mio pieno del suo nuovo focolare. Nella mattinata di giovedì 12 aprile, il presidente della Francia Emmanuel Macron ha reso noto di avere le prove della responsabilità del governo siriano di Bashar Al-Assad sull’attacco chimico in Siria a Douma. E se Germania e Italia hanno già detto no ai raid, la Gran Bretagna ha annunciato di aver bisogno di maggiori informazioni per sostenere un attacco missilistico in Siria. Ora la palla passa nelle mani degli Stati Uniti. E di Donald Trump. L’amministrazione statunitense ha la ghiotta opportunità di non ricadere negli stessi errori del 2011, quando l’occidente si accordò per bombardare Gheddafi in Libia. Una scelta rivelatasi suicida e che ha provocato danni e squilibri in tutta Europa, ancora oggi irrisolti. Nel 2011 Barack Obama sbagliò, sostenendo bombardamenti che probabilmente non avrebbe dovuto sostenere, seguendo le sirene francesi di Sarkozy e la posizioni anglosassoni decise di David Cameron. Nel 2018 Donald Trump è di fronte a un crocevia. Seguire le sirene di Macron e le posizioni di Theresa May, e intraprendere la strategia del terrore di Frank Underwood in House of Cards per distogliere l’attenzione pubblica dai fronti interni che lo vedono coinvolto. O non farsi coinvolgere in una guerra in Siria dai risvolti incerti, che rischia di avere conseguenze drammatiche in tutto il sud Europa. Ai posteri, e ai tweet dei prossimi giorni, l’ardua sentenza.