Tredici personalità ed entità russe nel mirino del procuratore speciale Robert Mueller, per aver tentato di influenzare l’esito del voto americano del 2016. La notizia rimbalza di quotidiano in quotidiano e fa il giro del globo, perché finalmente sembra aver messo un punto fermo a un’indagine – quella sul Russiagate – che fino ad ora sembrava aver inanellato tanti elementi indiziari, qualcuno più concreto e qualcun altro più fumoso, mancando però sistematicamente la famosa “pistola fumante” che avrebbe potuto imprimere la svolta all’indagine. Pistola che non sarà, ça va sans dire, rappresentata da questi 13 accusati, ma, perlomeno per chi fino ad oggi derubricava l’intera indagine come una gigantesca “buffonata”, la questione si sta facendo decisamente più seria. Poi certo, oltre ai fatti esistono le loro interpretazioni, e su questo fronte i pareri rimangono discordanti. Perché c’è chi vede, nelle accuse formulate da un gran giurì federale, il primo vero elemento di concretezza che potrebbe dar via all’imprevedibile seguito di un’indagine che ha nel mirino, in ultima istanza, proprio colui che siede alla Casa Bianca. E poi c’è chi – compreso il Commander-in-Chief in persona – legge quanto accaduto nelle ultime ore come la prova che “No Collusion”, non vi fu collusione, come si è affrettato a ribadire Trump nella tempesta di tweet pubblicati a seguito alla notizia. Perché in effetti di personalità americane, magari appartenenti allo staff presidenziale, a supporto del tentativo di quei 13 accusati di influenzare l’esito del voto, in quelle 37 pagine non c’è traccia.
Russia started their anti-US campaign in 2014, long before I announced that I would run for President. The results of the election were not impacted. The Trump campaign did nothing wrong – no collusion!
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) February 16, 2018
Funny how the Fake News Media doesn’t want to say that the Russian group was formed in 2014, long before my run for President. Maybe they knew I was going to run even though I didn’t know!
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) February 17, 2018
“I have seen all of the Russian ads and I can say very definitively that swaying the election was *NOT* the main goal.”
Rob Goldman
Vice President of Facebook Ads https://t.co/A5ft7cGJkE— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) February 17, 2018
I never said Russia did not meddle in the election, I said “it may be Russia, or China or another country or group, or it may be a 400 pound genius sitting in bed and playing with his computer.” The Russian “hoax” was that the Trump campaign colluded with Russia – it never did!
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) February 18, 2018
General McMaster forgot to say that the results of the 2016 election were not impacted or changed by the Russians and that the only Collusion was between Russia and Crooked H, the DNC and the Dems. Remember the Dirty Dossier, Uranium, Speeches, Emails and the Podesta Company!
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) February 18, 2018
I never said Russia did not meddle in the election, I said “it may be Russia, or China or another country or group, or it may be a 400 pound genius sitting in bed and playing with his computer.” The Russian “hoax” was that the Trump campaign colluded with Russia – it never did!
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) February 18, 2018
Per ora, l’atto di accusa sostiene che gli imputati, da inizio a metà 2016, “sostennero la campagna presidenziale dell’allora candidato Donald J. Trump per danneggiare Hillary Clinton”. “Un’organizzazione”, nota come Internet Research Agency LLC, “cercò di condurre quella che chiamava una ‘guerra dell’informazione contro gli Stati Uniti d’America “attraverso finti profili” sui social media. “Intorno a maggio 2014, la strategia dell’organizzazione programmò di interferire con le elezioni presidenziali statunitensi del 2016, con l’obiettivo dichiarato di diffondere la sfiducia verso i candidati e il sistema politico in generale”. Tre imputati sono accusati di associazione a delinquere per frode bancaria, altri cinque di furto di identità aggravato.
Eppure, che siamo ancora lontani da quella “pistola fumante” di cui parlavamo prima lo dimostra, in fin dei conti, la sapiente strategia di comunicazione messa a punto da Trump per commentare la vicenda. Il Presidente, infatti, ha utilizzato due argomentazioni: la prima, come già detto, è l’assenza di collusione tra queste personalità russe imputate e il proprio staff; la seconda, che le intenzioni della Russia risalgono al 2014, cioè a ben prima che il tycoon annunciasse la propria candidatura alla Casa Bianca. Una strategia ben ponderata e per nulla casuale: rinunciando a priori a una difesa della Russia che sarebbe apparsa indigesta alla gran parte degli americani, Trump non ha messo in discussione il ruolo di Mosca, ma ha esaltato la propria totale estraneità ai fatti. Come se l’unico trait d’union tra lui e l’intera vicenda, eventualmente, fosse stato quello di essere malauguratamente stato scelto dal nemico come cavallo su cui puntare per destabilizzare gli Stati Uniti d’America.
Al di là della veridicità di tale versione – che, si spera, l’indagine finirà per appurare -, le argomentazioni della Casa Bianca mettono in luce quanta strada, ancora, debba percorrere chi vorrebbe vedere il Presidente in balia di un impeachment per il Russiagate. Anche perché lo stesso Robert Goldman, vice presidente per le inserzioni pubblicitarie di Facebook, nel tentativo di difendere la posizione dell’azienda, ha offerto un destro al Presidente, che non a caso ne ha ritwittato il cinguettio in cui l’esponente di Facebook negava che il principale obiettivo delle inserzioni russe fosse quello di influenzare le elezioni americane. Circostanza, peraltro, che le accuse confermano con forza. Non solo: Goldman ha anche ribadito che il 56% degli investimenti russi sono giunti dopo le elezioni, e non prima, e ha accusato i media mainstream di non averlo raccontato: una manna dal cielo, ovviamente, per Trump. Lo scorso sabato, poi, il vice addetto stampa della Casa Bianca Hogan Gidley si è spinto ancora più in là, suggerendo che, in fondo, il vero nemico non sia la Russia, ma qualcuno di più “interno”. “Ci sono due gruppi che hanno seminato caos in modo ancora peggiore dei russi, e sono i democratici e i media mainstream”, ha puntualizzato, accusando entrambi gli obiettivi di continuare a diffondere “questa bugia tra il popolo americano da più di un anno a questa parte”.
Comunque la si pensi, non si può negare che, a facilitare a Trump l’arduo compito di difendersi dai sospetti e dalle accuse, ci si sono messi, paradossalmente, gli stessi democratici, almeno dal momento in cui il loro Comitato Nazionale ha preso quella scellerata decisione di impegnarsi nel favorire una loro candidata alle primarie – Hillary Clinton – a discapito dell’altro – Bernie Sanders -, indipendente dal parere degli elettori. Duole ammettere che quell’onta che macchiò, di lì in poi, l’intera campagna democratica offre legittimamente il destro a interrogativi che l’establishment dem non pare ancora essersi posta appieno: perché, se il fatto che la Russia cerchi di influenzare l’esito delle elezioni americane non pare essere circostanza così assurda, per di più per gli Stati Uniti che, in attività di tal genere, hanno innegabilmente lunga esperienza, resta invece incomprensibile come un partito che abbia scelto per sé il nome di “democratico” possa aver macchinato per orientare – anche qui – le preferenze del proprio elettorato per l’una dei due sfidanti. Nulla che – intendiamoci – possa in ogni caso giustificare la circostanza – sempre se verrà dimostrata – di una eventuale collusione tra lo staff di Trump e i progetti russi.
E poi c’è l’altra grande questione, che prima che politica ha in sé un’urgenza sociale, ed attiene a Facebook, ai social network in generale e alle conseguenze che un uso distorto del mezzo può avere sulla stessa tenuta democratica. Non a caso, il tema del contrasto alle fake news è da mesi all’ordine del giorno, e interroga, a sua volta, il concetto stesso di democrazia: se la necessità in sé di contrastare le fake news è incontestabile, resta il timore, legittimo per chi scrive, che le iniziative medesime di contrasto delle bufale o di un uso scorretto del social di Mark Zuckerberg possano rovesciarsi nel loro contrario, e cioè in una censura potenzialmente indiscriminata. L’interrogativo che la questione solleva, comunque la si pensi, non è di poco conto: è legittimo che sia la stessa piattaforma che ospita le notizie ad ergersi a tribunale della verità? Non esiste il pericolo che l’estrema democraticità del web – a cui corrispondono, chiaramente, tutti i rischi del caso – venga sottoposta, alla lunga, a una restrizione sulla base di criteri difficilmente controllabili?
Tutte domande che poniamo, senza, per forza di cose, avere a portata di mano una risposta univoca. Le enormi potenzialità di Facebook portano con sé rischi di pari dimensione, se solo si pensa che la stessa politica messa di recente in atto dal social, e cioè la valorizzazioni di gruppi considerati “molto significativi”, può finire per facilitare attività come quelle che secondo l’accusa hanno condotto le 13 personalità ed entità russe oggi nel mirino di Mueller. Lo scorso anno, Facebook stimava che 100 milioni di utenti facessero parte di gruppi “molto significativi”, ma chi può dire quanto “significativi” fossero considerati quegli stessi gruppi utilizzati per orientare l’esito delle elezioni americane? Soprattutto se pensiamo che, secondo le accuse, i russi avrebbero investito in quei gruppi migliaia di dollari al mese. Il vicepresidente della global policy di Facebook, Joel Kaplan, ha assicurato che il numero delle persone che lavorano nella sicurezza di Facebook raddoppierà quest’anno, giungendo a 20mila. Sarà sufficiente per prevenire fenomeni di questo tipo? E soprattutto, a che prezzo?
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