Roma, fine anni ’80. Al Liceo Giulio Cesare si studiava duramente, il greco era la nostra maggiore preoccupazione, insieme a quella di mettere insieme i soldi per andare ai concerti dei Duran Duran, Madonna, Spandau Ballet, Michael Jackson, U2 e tanti altri. Anche Diana, come tanti altri della classe, prendeva voti tendenti allo zero nelle versioni di greco e ne rideva, mal comune mezzo gaudio. Come tutti noi, a ricreazione cercava di scappare verso il mitico Bar Tortuga, nella piazzetta davanti al liceo, per mangiare qualcosa di diverso dai panini con mortadella della bidella, ma veniva inesorabilmente intercettata dal “capobidello” Cestra, sicuramente ex SS, che la ricacciava dentro urlando e minacciando gravi punizioni, agitando in aria la scopa. Cestra aveva sempre una scopa in mano, anche se la scuola non sembrava mai molto pulita, quindi pensavamo che la scopa fosse più che altro un’arma da usare contro gli studenti ribelli.
Il “Giulio”, un casermone del 1936 inaugurato dal fascismo, aveva un bel cortile dove la statua di Giulio Cesare si stagliava imponente, statua che in inverno veniva abbellita da cappelli e sciarpe contro il volere dei loro proprietari, ai quali venivano sottratti di soppiatto.

Dentro alle polverose aule del Giulio soffrivano giornalmente migliaia di studenti, alle prese sia con il latino e il greco che con le allergie agli acari delle tende, probabilmente anch’esse del periodo fascista. Qualche anno prima che io e Diana ne varcassimo la soglia, davanti al liceo un commando dei Nuclei Armati Rivoluzionari uccise l’appuntato Francesco Evangelista, detto Serpico, colpito da ben sette pallottole. Anche mio padre era stato uno studente del Giulio Cesare e con lui mio zio, ma avrebbe preferito farmi rimanere fra le suore del Marymount, visto che in quegli anni le scuole pubbliche erano piuttosto pericolose.
Io invece insistetti per andare al liceo pubblico, volevo vivere la vita “vera”, amavo i miei compagni delle elementari e medie (e sono rimasta amica di molti di loro) ma volevo fare nuove conoscenze, volevo aprirmi al mondo. Ogni tanto fuori scuola arrivavano quelli di Autonomia Operaia, molto più grandi di età, e scoppiavano feroci risse con gli studenti del Giulio appartenenti al Fronte della Gioventù. Noi più piccoli correvamo via ma non avremmo perso lo spettacolo per nulla al mondo, guardavamo gli scontri da lontano e nessuno chiamava la polizia, anche perché non c’erano cellulari e il telefono a gettoni più vicino era sempre rotto. Un volta che la rissa scoppiò ad un metro dal mio motorino parcheggiato nel cortile, non feci in tempo a scappare e vidi accanto a me un ragazzo con barba e baffi che a me sembrava di almeno 25 anni che quasi staccò un dito a morsi ad uno studente. Il dito pendeva dalla mano e mi sentii quasi svenire.
Ma verso la fine degli anni ‘80, fra programmi come Drive In, Indietro tutta e Colpo Grosso, la rabbia e la violenza degli anni ’70 sembrarono diluirsi in un’allegra leggerezza, gli ideali si sgonfiarono e il benessere pervase la società italiana. Gli anni di piombo sembravano ormai un ricordo, non si parlava più giornalmente delle famigerate Brigate Rosse.
Io ero una bambina quando il 16 marzo del 1978 il governo di Giulio Andreotti stava per essere presentato in Parlamento per ottenere la fiducia mentre, nel frattempo, l’auto di Aldo Moro venne bloccata in Via Mario Fani da un nucleo amato delle Brigate Rosse. Uccisero i due carabinieri a bordo dell’auto e i tre poliziotti nell’auto di scorta. Rapirono Moro, storico rappresentante e segretario della Democrazia Cristiana, lo tennero 55 giorni in prigionia e dopo inutili patteggiamenti e un processo del cosidetto “ tribunale del popolo” composto da brigasti, lo uccisero. Il suo corpo,come un sacco di stracci, venne fatto ritrovare nel bagaglio di una Renault 4 in Via Caetani, vicino alla sede del partito comunista e della stessa DC.

Il paese era nel panico, nessuno si sentiva al sicuro negli anni ’70. Bombe che scoppiavano, strade che venivano chiuse improvvisamente, macchine che prendevano fuoco. Le Brigate Rosse sicuramente erano i nemici numero uno dello Stato Italiano.
Al Giulio Cesare io e Diana eravamo nella sezione E, quella che era stata anche di Antonello Venditti, che ha dedicato al suo liceo una canzone e ha lasciato sul muro della palestra una firma, rimasta lì forse ancora adesso “Antonello Venditti III E”. Eravamo una classe disunita, a detta dei professori. Io venni eletta rappresentante di classe e riuscii ad avere un buon rapporto anche con i professori più ostici, fra cui ovviamente la prof. di latino e greco, che preferiva parlare in greco antico che in italiano e che mostrava il suo personale “sense of humor” quando durante i compiti in classe diceva allo studente pizzicato a copiare o chiedere aiuto ” fatti i casi tuoi”, che a noi sembrava qualcos’altro. Però, pensandoci bene, da quella classe disunita sono nate tre coppie, ad oggi ancora insieme e con prole.
Ai concerti andavamo in gran numero, tutti insieme sotto il palco, a cantare e ballare. Quella che ballava di più era Diana, che io chiamavo scherzosamente “Beretta” (mai soprannome fu più tristemente azzeccato). Diana era sempre fra le prime a voler andare ad un concerto, dal primo al terzo liceo non ne abbiamo perso uno, ricordo quello dei Frankie Goes to Hollywood dove Diana diede il meglio di sé, uscendo sudata fradicia, stanca e anche un po’ sporca per essersi versata addosso una lattina di coca cola durante un passo di danza particolarmente ispirato.
La sua stanza da letto era tappezzata da foto degli Spandau, io ero una fan dei Duran e quindi spesso avevamo accese discussioni su quale band fosse migliore, anche se ci piacevano entrambe e le discussioni erano in verità su quale membro delle band fosse più il carino. Quando riuscii, tramite conoscenze, ad andare in Rai alle prove di Fantastico per incontrare dal vivo i Duran Duran e tornai a scuola con autografi e tante cose da raccontare, fui cacciata fuori dalla classe insieme a lei, visto che io non la smettevo più di parlare e lei mi prendeva in giro dicendo che visto che avevo baciato John Taylor sulla guancia mi ero sicuramente presa l’Aids. In quegli anni le notizie sull’Aids erano infatti piuttosto confuse.
Nulla faceva intuire che Diana covasse qualche germe ribelle, di violenza o anche solo di rabbia. A scuola c’erano ragazzi che dicevano di essere anarchici e si vestivano tutti di nero con la giacca di pelle con dietro la A cerchiata, c’era qualche dark truccato come il cantante dei Cure, avevamo gruppi di destra e gruppi di sinistra. Diana non era altro che una ragazzina come altre e non apparteneva a nessuno schieramento. Diana era buffa.
Prima di partire per Monaco di Baviera in gita scolastica, mentre eravamo già sul treno con le teste fuori dal finestrino per salutare i genitori che ci avevano accompagnato, Diana aspettò che il treno si muovesse e poi, con un gran sorriso urlò “ Ciao mamma, ciao papà, comunque volevo dirvi che ho preso 3 alla versione di greco!” Le facce dei suoi mutarono espressione e le loro braccia tese nei saluti si bloccarono a mezz’aria. Noi scoppiammo tutti a ridere. Tanto stavamo andando lontano e per una settimana Diana, come tutti noi, non avrebbe neanche parlato con i suoi genitori, a parte la classica chiamata a gettoni di due secondi per dire “sono arrivata”.
Diana era carina senza essere particolarmente interessata alla moda, ma in determinate occasioni si truccava un po’, ad esempio quando si andava a Villa Borghese a fare una passeggiata o quando si faceva su e giù per Via del Corso al sabato pomeriggio. Lei era la più grande e io la più piccola, ero andata a scuola quasi un anno e mezzo avanti, durante l’ultimo anno del liceo invece Diana sarebbe stata già maggiorenne e avrebbe potuto firmarsi le assenze da sola, cosa per cui tutti noi provavamo una grande invidia. Fu anche la prima che votò appena compiuti i 18 anni, le chiesi per chi avesse votato e lei mi rispose “per Mario Capanna”.
Sapevo che era il leader di qualche partito di estrema sinistra, lei mi disse che si chiamava Democrazia Proletaria, ma ero più interessata all’ecologia in quegli anni, speravo solo che non aprissero mai in Italia le famigerate centrali nucleari. Mi disse che Capanna era uno in gamba, leader studentesco nel ’68, uno che non aveva paura, all’occorrenza, anche di menare le mani. Io del ’68 sapevo solo quello che ci aveva raccontato il professore di storia e filosofia, mio padre, orfano di padre fin da piccolo, nel ’68 stava per provare il concorso in magistratura e le lotte studentesche non lo interessavano affatto, mia madre non ha mai partecipato con gioia a nulla che comprendesse più di tre o quattro persone, quindi a cortei e manifestazioni non avrebbe partecipato neanche pagata. A parte il voto per Capanna, che voleva dire ben poco, nulla in Diana lasciava trasparire una vena rivoluzionaria.
Dopo la maturità lei decise di iscriversi a Biologia, io andai a Giurisprudenza, le altre amiche si divisero fra Economia, Lettere antiche o moderne e Scienze Politiche, insomma ci fu una diaspora. Da quel momento ne persi le tracce, ma seppi che anche le ex compagne che vivevano molto vicino a casa sua, a Piazza Bologna, la vedevano meno, che frequentava un altro giro, che non la sentivano neanche più al telefono. Si seppe, nel 1993, che testimoniò ad un processo contro esponenti della destra accusati di aver aggredito Gianluca Peciola, oggi consigliere di Sinistra Ecologia e Libertà al comune di Roma. Si mormorava che frequentasse centri sociali e gruppi estremisti, ma non si sapeva bene di cosa si trattasse.
Io anche iniziai a frequentare altri giri e altre persone, fra Piazza Euclide e il circolo di Tennis, così la vita ci divise per sempre. Passai anche alcuni anni negli Stati Uniti, in California e tornai in Italia alla fine del 2000. Un giorno, nel 2003, mentre ero in cucina all’ora di pranzo, con la tv accesa, ho sentito che era stata appena arrestata Diana Blefari Melazzi, ricercata e latitante, con l’accusa di essere parte delle Nuove Brigate Rosse e di aver partecipato all’omicidio d’Antona e Biagi.

Quasi mi cadde la pentola a terra e mi dovetti sedere. Era lì in tv, in manette, la chiamavano “terrorista”. Era uguale a come la ricordavo, non era cambiata affatto, aveva solo un’ espressione più dura. Lei aveva ucciso o partecipato all’uccisione di Massimo d’Antona e Marco Biagi? Per me era ancora più terribile visto che quelle due persone erano entrambi consiglieri del Ministero del Lavoro e mio padre lo era stato prima di loro. Era consigliere di Bersani e di Treu, del Ministero dei Trasporti e del Lavoro. Mio padre poteva essere al loro posto. Ma tanto era già morto da un anno, ucciso da un cancro, e spesso ho pensato che se gli avessero sparato Diana e le BR forse sarebbe stato meno doloroso per tutti.
Diana non voleva collaborare con la giustizia, si era chiusa nel silenzio e fu condannata prima a nove anni per l’omicidio d’Antona, poi all’ergastolo per quello di Biagi.

Era in regime di isolamento a Rebibbia e soffiva di una forte depressione, come ne soffriva da sempre sua mamma, che si suicidò nel 2001. Diana dopo qualche anno di carcere iniziò a cedere, chiedeva di parlare, iniziò a scrivere delle lettere. Intanto aveva continui attacchi di panico, soffriva di paranoie, pensava che qualcuno la volesse avvelenare (pare che dicesse che fosse d’Alema a volerla uccidere) e rifiutò di mangiare per 28 giorni. Non ce la faceva più in isolamento e così, in un giorno di marzo del 2009, Diana decise di impiccarsi con le sue stesse lenzuola, una cosa che mi ha fatto sempre molta impressione. Nessuno sentì nulla e quando si accorsero di lei, riuscirono con difficoltà a sciogliere quei nodi strettissimi e non c’era comunque più nulla da fare per salvarla.
Così finì la vita di Diana Blefari Melazzi, di ottima famiglia di origini calabresi, con una mamma nobile e fragile, una ragazzina come tante, che al liceo amava gli Spandau Ballet. Una come tante forse non lo era più, era una terrorista, una nemica dello Stato, una condannata all’ergastolo. Era lei l’intestataria del covo delle nuove BR, dove si ritrovarono armi ed esplosivi, lei faceva da “staffetta” per pedinare Marco Biagi a Bologna e Modena. Non so se incontrandola da adulta avrei trovato ancora qualcosa in comune con lei, a parte la mia giovinezza e i tempi del liceo, ma io la voglio ricordare diversamente, mentre balla freneticamente durante il film di Prince “Purple Rain” e ai concerti, mentre ridiamo per gli episodi divertenti di quando eravamo in gita a Parigi, in Sicilia e in Germania. Forse, se avesse parlato, fra una decina di anni sarebbe uscita come altri terroristi e chissà se si sarebbe mai pentita dei due omicidi.
Diana non c’è più e le mille domande che vorrei farle rimarranno sempre senza risposte, mentre il Giulio Cesare è sempre lì, da anni ormai con la sua facciata bianca e pulita, senza i graffiti e le scritte degli anni ’80. So che hanno istituito l’Associazione degli ex alunni ed ex docenti e che il regista e conoscente Federico Moccia vi ha girato diverse scene di “Scusa ma ti chiamo amore” del 2008. Non sapevo invece, e l’ho letto recentemente, che la tv di stato giapponese, durante un documentario storico su Giulio Cesare ne ha anche dedicato una parte al liceo romano.
Dal 2012 nel cortile c’è una lapide in ricordo di Enrico e Giuliana Finzi, studenti del liceo e vittime delle leggi razziali, deportati ad Auschwitz nel 1943 e mai più tornati.
Diana invece sarà ricordata come una ex alunna carnefice, non come vittima, ma io preferisco pensarla sorridente al liceo, quando forse, come in Sliding Doors, il suo destino poteva ancora prendere un’altra piega, ma purtroppo non l’ha fatto.