L’Europa si sveglia “bruscamente” con la mafia dentro casa. Anzi, forse fin dentro al Palazzo. E con un morto ammazzato. Un giornalista scomodo. Il contesto però non è quello della Sicilia a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, né di un paesino sul pizzo dell’Aspromonte. Ma i tentacoli che si assottigliano e si allungano per le più propizie vie del Vecchio Continente parrebbero appartenere proprio a quella Calabria “appendice d’Europa”, tanto arcaica nella sua struttura quanto pioniera nel coniugare i vecchi sporchi affari con l’avanscoperta di nuovi settori più redditizi. Trovando terreno fertile in Paesi dell’Est quasi “invisibili”, come la Slovacchia, dall’assetto economico ancora piccolo, fragile e sregolato (a quasi un trentennio dalla caduta del Muro) e particolarmente permeabili alle infiltrazioni – e al radicamento – della criminalità organizzata.
Lo aveva ben capito e in parte documentato Jan Kuciak, ucciso a 27 anni, il 22 febbraio scorso a Michalovce insieme alla fidanzata Martina Kusnirova, che da qualche tempo indagava sulle connessioni tra pezzi di governo slovacco e ‘ndrangheta. Scoperchiando sulle colonne di Aktuality il business delle mafie nell’agricoltura, nel biogas, nel fotovoltaico, nell’immobiliare. Che passa per i fondi europei. E per i piani più alti delle stanze del potere.
IL REPORTAGE INCOMPIUTO
“Quattordici anni fa, un italiano di nome Carmine Cinnante arrivò nella cittadina di Michalovce. Una mattina partì con la sua Fiat Punto bianca dal paesino di Novosad (…) Sul sedile posteriore trovarono una valigetta in legno nera con un’arma da fuoco, 50 pallottole e un caricatore” scrive Jan nel suo ultimo reportage pubblicato online, ripercorrendo la rapida ascesa di alcune famiglie calabresi, tra loro anche i Vadalà, i Rodà, i Catroppa – i cui esponenti sono finiti ieri in manette nell’ambito dell’inchiesta sull’omicidio del reporter.
“Cinnante fu accusato di possesso illegale di armi e il giudice della corte distrettuale di Michalovce lo condannò a due anni con la condizionale (…) In quell’occasione il pubblico ministero definì l’italiano un imprenditore con attività in Slovacchia nel campo dell’agricoltura (…) Mesi dopo, la polizia italiana arrestò Cinnante con l’accusa di contrabbando di armi per conto del boss Guirino Iona. Iona era il boss della cosca di Belvedere di Spinello, uno dei clan della mafia italiana economicamente oggi più potente, la ‘ndrangheta”.

Kuciak ricostruisce quindi il radicamento della criminalità organizzata nel suo Paese: “Cinnante – scrive – non è l’unico italiano legato alla mafia ad aver trovato in Slovacchia una seconda casa. Queste persone hanno iniziato a fare affari, ricevere sussidi, attingere ai fondi europei e soprattutto a costruire rapporti con politici influenti, su fino all’ufficio del primo ministro”. Descrive poi l’incontro in una cooperativa agricola tra i paesini di Dvorianka e Parchovany fra “il business del mafioso Cinnante”, affiliato alla ‘ndrangheta, con Antonio Vadalà, che in breve tempo “mise in piedi un’attività redditizia nel settore agricolo, poi nell’immobiliare e nell’energia, diventando uno dei personaggi più in vista della comunità italiana in Slovacchia”.
Arriva a toccare i poteri forti l’inchiesta di Jan, tirando in ballo l’ex fotomodella Maria Troskova, assistente del premier Robert Fico, che nel suo reportage si fa punto di contatto tra esponenti della ‘ndrangheta e governo. La stessa Troskova, con cui Vadalà fonda una società (la Gia Management) che però la donna lascia l’anno dopo per diventare assistente parlamentare di un politico slovacco di spicco, Vilian Jasan. Troskova fa carriera in poco tempo, fino ad arrivare nell’entourage dell’ufficio centrale del premier Fico, dove subito dopo arriverà anche Jasan.
“I rapporti fra Jasan e Vadalà sono evidenti soprattutto nel campo degli affari.”, scrive Kuciak nel suo ultimo articolo. Il giornalista fa i nomi e punta a svelare le connessioni che consentono alla ‘ndrangheta di spadroneggiare su suolo slovacco. “Antonino Vadalà e Carmine Cinnante non hanno agito da soli. Nella regione orientale del Paese – dopo essersi coordinati e organizzati per collaborare – operano quattro rappresentanti della famiglia italiana calabrese, la patria della ‘ndrangheta. Oltre ai Vadalà e ai Cinnante, ci sono anche le famiglie Roda e Catropove, la cui attività principale in Slovacchia è l’agricoltura. Amministrano da centinaia a migliaia di ettari di terreno, per i quali ricevono sussidi di milioni di euro. (…) Proprio tra il 2015 e il 2016, le aziende di queste famiglie riuscirono a ottenere pagamenti diretti dall’Agenzia per le erogazioni in agricoltura per oltre otto milioni di euro, e altre centinaia di migliaia di euro le ricevettero come sovvenzioni del progetto”.
Agricoltura, ma non solo: “Altri soldi pubblici furono riscossi sotto l’influenza degli italiani per centrali elettriche a biogas. Tra il 2012 e il 2017, ad esempio, tre aziende della famiglia di Diego Roda hanno ricevuto 8,3 milioni di euro”, rivela ancora Kuciak che cita anche il business del traffico di stupefacenti: “Nel 2017 i nomi di parenti di Antonino Vadalà sono comparsi in un mandato d’arresto per 18 affiliati accusati del contrabbando di centinaia di chilogrammi di cocaina in Europa per conto dell’ndrangheta. I Vadalà sono solo citati nel mandato. Ma non si conoscono ancora i particolari del caso”. Sono le ultime righe dell’inchiesta di Jan, rimasta incompiuta.

MANETTE E DIMISSIONI
A poche ore dalla morte di Kuciak e della fidanzata, il primo ministro slovacco Robert Fico si fa fotografare con accanto un milione di euro in contanti, offerti come taglia a chiunque assicuri alla giustizia i sicari dei due giovani, respingendo gli attacchi di chi lo accusa di tollerare la corruzione. Nel mirino, in particolare, i rapporti tra il gruppo di imprenditori calabresi capeggiato da Vadalà e i politici regionali del suo partito, lo Smer-Sd. Intanto a Bratislava ieri sono scattati gli arresti per Antonio Vadalà, il fratello Bruno e il cugino Pietro Catroppa e per altri quattro italiani, identificati come Sebastiano V., Diego R., Antonio R. e Pietro C.. A Palazzo, invece, le prime dimissioni, quelle del ministro della Cultura, Marek Madaric, e dei due membri dello staff del premier coinvolti nell’inchiesta di Jan, Maria Troskova e Vilian Jasan, segretario del Consiglio di sicurezza. L’opposizione chiede con forza anche un passo indietro del ministro dell’Interno Robert Kalinak (Smer) e del presidente della polizia Tibor Gaspar. I cittadini slovacchi intanto scendono in strada, tra candele e cartelli che recitano “Mafia esci fuori dal mio Paese”. Ma lo sdegno per l’uccisione dei due giovani nelle ultime ore ha portato a mobilitarsi anche altri Paesi. Da Berlino a Londra, da Bruxelles a Dubai, fino a Hong Kong e Pechino, sono circa 25 le città nel mondo in cui si svolgeranno raduni per ricordare il reporter assassinato. La marcia principale partirà oggi alle 17 da piazza Hviezdoslav a Bratislava.
LA ROTTA MAFIOSA DELL’EST
Il procuratore di Reggio Calabria, Gaetano Paci, sostiene che da tempo la Procura distrettuale antimafia locale avrebbe avvertito la polizia slovacca e sovranazionale sulla necessità di monitorare le attività del gruppo dei calabresi arrestati, tutti collegati a famiglie mafiose di Bova Marina e Africo Nuovo. Il sospetto – ha spiegato – era nato focalizzando i movimenti degli arrestati “per l’improvviso esplodere di posizioni di grande valore economico e imprenditoriale in Slovacchia di cui erano divenuti titolari: dalle iniziative sulle energie alternative, alle attività agricole e zootecniche”. Un Paese in dove, ha aggiunto, “emerge preoccupante l’affermarsi del modello ‘ndrangheta, capace di instaurare relazioni collusive con segmenti dell’establishment politico e amministrativo locale”, sottolineando come per contrastare l’espansione della mafia e dei suoi metodi corruttivi nel Paesi dell’est Europa, “non esistono gli stessi strumenti legislativi e prassi avanzate dell’Italia”.

Intervenuto sull’omicidio del reporter, il procuratore della Repubblica di Catanzaro Nicola Gratteri ha parlato di una ‘ndrangheta “radicata, non infiltrata, non solo in tutta Italia ma anche nei Paesi europei come Germania, Svizzera ma anche nell’Est europeo, oltre che in Slovacchia anche in Romania e Bulgaria”, Paese cerniera fra oriente e occidente. “Le mafie – dice – stanno acquistando latifondi per piantare vigneti, per piantare colture, il cui fine è quello di arrivare ai contributi europei”. Vero dramma, sostiene Gratteri, è che contro le mafie “i Paesi europei non vogliono attrezzarsi sul piano normativo come l’Italia. In Europa – aggiunge – da decenni non c’è la percezione dell’esistenza della mafia. Ancora stanno discutendo se inserire nel loro ordinamento l’associazione a delinquere di stampo mafioso. Quando si parla di Procura europea la mia paura è che si vada all’omologazione al ribasso, perderemmo un secolo di antimafia. Griderò fino a perdere la voce contro un’omologazione al ribasso”.
GIORNALISTI UCCISI
Intanto sempre più reporter in Europa e nel mondo sono nel mirino dei poteri forti e della criminalità organizzata. Prima di Jan Kuciak, soltanto qualche mese fa, era toccato alla giornalista maltese, Daphne Caruana Galizia, pagare con la vita per le sue inchieste. In una recente analisi, Transparency evidenzia in particolar modo la relazione tra libertà di stampa, corruzione e violenza contro i giornalisti a ogni latitudine. Dal 2012 a fine 2017, 368 professionisti dell’informazione sono stati uccisi mentre svolgevano il proprio lavoro: il 96% di questi omicidi è avvenuto in Paesi dalla corruzione elevata nel settore pubblico. E su casi di corruzione stava indagando un giornalista su cinque fra quelli uccisi nel mondo: 179 di loro attendono ancora giustizia.
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