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Anime nere, un grido di dolore dalla Calabria

Laura CaparrottibyLaura Caparrotti
Ribelli al clan di mafia: il fenomeno delle donne fuggite dalla Calabria

Una scena dal film "Anime nere" del regista Francesco Munzi, che narra la storia di una famiglia connessa alla 'ndrangheta calabrese

Time: 4 mins read

 

Molti di coloro che mi leggono hanno avuto l’opportunità di scoprire le mie radici calabresi. Pur non essendo nata in quella bellissima terra, parte della mia famiglia è di quei luoghi, come il mio cognome, calabresissimo, e una buona parte del mio cuore e del mio carattere (dicono, infatti, che ci appartenga la testardaggine). Eppure non so quanti possano capire cosa voglia dire sentirsi calabresi e toccare con mano, anche se solo per pochi mesi, una realtà che vive il continuo paradosso di poter essere bellissima e di dover essere difficile causa la mala amministrazione e la criminalità più o meno organizzata che governa in maniera spesso, troppo spesso, indisturbata. Per questo, nel vedere il bellissimo film di Francesco Munzi, Anime Nere, mi è venuto un nodo allo stomaco. 

Il film, realizzato in luoghi dell’entroterra calabrese, è scritto e girato come una vera a propria tragedia greca e in quanto dramma reale rappresentato in maniera tragica (vale a dire teatrale, vale a dire con personaggi che evocano situazioni e persone), va a toccare temi che sanguinano dentro, lentamente. Il film parte da Milano, dal grande Nord che tanto va avanti e che tanto è ricco rispetto ad un povero Sud martoriato dai tempi dell’unità d’Italia. Però è quel Sud che ha alimentato il Nord, è quel Sud che ha dato forza lavoro e che ha visto le sue terre spopolarsi perché la sua gente avesse un futuro migliore, quando il futuro era stato distrutto dai piemontesi al governo. 

Il grande Nord dicevamo. Un posto dove la criminalità organizzata mangia, fa affari,  cresce smisuratamente e dove non pensa a chi ha lasciato indietro, perché il paese d’origine sta lì a sostenere e a fare da concime per gli affari nel mondo. Nel film, da Milano, si torna al paesello fra i monti in Calabria. Un luogo che sembra fermo nel tempo, dove i monti fanno da confine e dove i riti sono sacri e si trovano nella quotidianità così come nelle occasioni speciali. Bisogna sapere come muoversi, come parlare, come agire. Bisogna saper stare zitti, non ascoltare, non vedere. Bisogna sapere quali sono le regole non scritte. Bisogna. 

In questo mondo, accettato a forza dalle vecchie generazioni che vanno avanti in una sorta di rassegnazione amara, le giovani generazioni si dividono fra chi vuole fare e chi vuole seguire, anche se la strada prescelta non è raccomandabile. Questo è uno dei punti centrali del racconto di Anime nere. I giovani che senza alcuna speranza di una vita normale, finiscono con l’abbracciare quell’esistenza nera e mortale della criminalità. Non è una decisione presa a priori, non è una questione di orgoglio o di incapacità. È, in molti casi. Una decisione disperata, presa perché viene uccisa qualsiasi speranza di riuscire ad avere un lavoro e dunque un futuro vero e sorridente. 

Dicevo che bisogna vivere quei luoghi per capire. Quell’atmosfera cupa e soffocante è quella che, ahimè, a volte si respira davanti a tramonti mozzafiato e a sapori dolcissimi.  I colori usati da Munzi nel film non sono quelli del luogo, quanto quelli della mente. Quando il vicino ti fa un sopruso e tu sai che pur andando in Comune o alla polizia riceverai solo un’alzata di spalle, se va bene, con tanto di “cosa possiamo fare?”, quel grigio ti entra in testa. E tu sei lì solo per due mesi all’anno. Per non parlare di abusi edilizi, di politicanti che costruiscono ovunque, non curanti delle possibili frane (solo pochi anni fa, al paese di mio nonno, Maierato, è venuta giù una parte di collina per via di lavori fatti a valle). 

Come si può pensare che la tragedia che si consuma nel film sia evitabile? È di qualche giorno fa la notizia che la Calabria, dal 2007 senza un assessore al turismo e da qualche mese senza quello alla Cultura, è tagliata fuori dalla maggiore arteria stradale, la Salerno-Reggio Calabria, per via di una frana accaduta nei pressi di un viadotto vicino all’uscita di Lagonegro, frana che ha fatto chiudere l’unica autostrada – vecchia e consumata – che attraversa la regione, fino a data da destinarsi. Tradotto in italiano significa: fino a quando qualcuno non  capisce come guadagnarci con i lavori necessari, dividendo la torta in maniera giusta fra tutte le parti coinvolte, ‘ndrangheta compresa. 

Anche solo questi dati fanno capire che Anime Nere colpisce nel cuore con la sua storia di vite che reclamano importanza e un futuro, qualunque esso sia. Ed è sbagliatissimo additare questo film come un film di mafia – come ovviamente ha fatto la stampa americana. Anime Nere è un vero e proprio grido di dolore di una terra che vuole nutrirti e non avvelenarti, ma che lo fa, inconsapevolmente, per colpe non sue. Un discorso che si può estendere alla nostra nazione tutta. 

Quest’estate ho recitato in un testo teatrale, Onions, scritto da Rosario Mastrota e Dalila Cozzolino, entrambi calabresi, in cui la Calabria era una donna che nutriva i suoi commensali e il trasformava attraverso il cibo in statue che non l’avrebbero mai lasciata. Nella visione romantica di Rosario e Dalila, la Calabria cercava amore vero, il solo che l’avrebbe potuta salvare. In Anime Nere non c’è amore, non c’è speranza, tutto è ucciso metaforicamente e realmente. Chi scrive e con me tanti che conosco e che ancora lì abitano e combattono, la speranza non l’hanno persa. Anime Nere va visto, perché è un bellissimo film, con una sceneggiatura che omaggia Euripide, Sofocle, Eschilo. Anime Nere va visto sapendo che un cambiamento può essere possibile e che il  nero deve poter essere cambiato in rosa, magari quello di uno dei tramonti più belli al mondo.

 

Prima di chiudere, ripropongo un articolo di un anno fa su Decameron e Mandragola.

Siamo di nuovo in scena con questi due capolavori letterari. Se vi va, passateci a trovare. Siamo al Bernie Wohl Center (647 Columbus Avenue) dal 9 al 12 aprile. Qui informazioni e biglietti.

 

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Laura Caparrotti

Laura Caparrotti

Ho cominciato a fare teatro nell'ingresso di casa mia, a Roma. Poi sono venuti i maestri, la laurea in discipline dello spettacolo e le tournée. Nel 1996, New York, nello storico The Kitchen. Vent'anni dopo sono ancora qui. Ho fondato una compagnia, la Kairos Italy Theater, specializzata in cultura italiana, e In Scena! Italian Theater Festival NY, un festival che porta il nostro teatro in tutti i distretti della città. Il teatro è la mia grande passione, insieme al ballo e alla (magggica) Roma. A New York ho anche iniziato a scrivere (proprio con Stefano Vaccara nel 1997), a insegnare teatro, a fare voice over e la dialect coach. Il tutto condito da un inconfondibile – ma affascinantissimo, mi dicono – accento italiano.

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