Oggi sarebbe il compleanno di Lou Reed, nato il 2 marzo del 1942 a Brooklyn e cresciuto a Freeport, Long Island. Lou Reed il New York City Man, come si è definito in una delle tante canzoni che ha dedicato alla sua città, così diversa negli anni 60 e 70 rispetto a quella attuale. Lou Reed che è stato, per tanti ragazzi in ogni parte del mondo, il cantore dei bassifondi, della “giungla metropolitana”, come la si chiamava allora, delle sue perversioni, delle sue droghe. Del suo latente, disperato romanticismo.
È strano: le sue canzoni, soprattutto i suoi testi, che conosco quasi a memoria, mi turbano più oggi, che sono over 50, di allora, quando ho iniziato ad ascoltarle, ed allora ero solo un ragazzino senza esperienza. Mi turba ciò che allora mi era sembrato artisticamente grandioso: l’assenza di un giudizio morale, lo sguardo lucido, spietato.
Che cosa poteva spingere un adolescente italiano (o anche spagnolo, austriaco, svedese, se è per questo) nato in una piccola città nel cuore delle Alpi, verso quel genere di musica, e di tematiche? Me lo chiedo ancora. Il fascino della trasgressione? Anche, forse, ma non è tutto qui, certo che no.
Vediamo, allora. Innanzitutto, Lou Reed è stato uno di quelli che ha dato al rock dignità culturale. Lo ha fatto portandogli in dono il mood tipico della tragedia. Evidentemente, all’epoca, c’era già un pubblico predisposto a questo genere di cose. Forse, più in generale, il bisogno di sentirsi narrare storie tragiche è sempre presente nella storia dell’umanità. In fin dei conti, anche i greci andavano a teatro per “intrattenersi” con vicende di incesto, inganno, morte (destino).
Ma in origine il rock ‘n’ roll, a cui Lou Reed rimarrà sempre devoto, fino alla sua morte (il 27 ottobre del 2013), era nato semmai come musica liberatoria, fatta per accompagnare l’adolescenza dei giovani del Secondo dopoguerra, le loro corse in macchina, i primi amori, i primi conflitti generazionali. Lou Reed ne fece, indubbiamente, qualcos’altro. Un veicolo per storie amare, a volte strazianti, come nel suo capolavoro, Berlin (che fu troppo persino per i sui fan, tant’è che fu un fiasco commerciale).
Per raggiungere il suo scopo, Lou Reed si appoggio ad un altro medium artistico, la letteratura, quella che aveva studiato alla Syracuse University avendo per maestro un grande poeta e autore di short stories, Delmore Schwartz. Certo, se avesse preso per modelli, non so, Whalt Withman, o Thoreau, ne sarebbero uscite tutt’altro genere di canzoni. Lou Reed invece era incline al realismo metropolitano. L’idea era quella di cantare il lato oscuro di New York, come nessun altro aveva fatto. La cultura di quegli anni del resto andava in quella direzione. Poco prima di ascoltare per la prima volta Heroin, ricordo di avere visto al cinema Taxi Driver (mentendo sull’età, era vietato ai minori di 14 anni). Al cinema davano anche i film di Andy Warhol, nella cui corte Lou Reed era stato ospitato e allevato. Film come Trash, che nelle locandine italiane porta come sottotitolo “I rifiuti di New York”. Il terreno per il cosiddetto “rock decadente” (definizione brutta ma in un certo senso anche azzeccata), insomma, era stato abbondantemente arato.
Lou Reed vi si insediò alla grande, con le sue canzoni ispirate a Sacher-Masoch, ad Edgar Allan Poe, a James Purdy, a William Burroughs, a Hubert Selby Jr. (ma con Schwartz aveva studiato anche Joyce). Ma anche con uno stile che portava alle estreme conseguente l’atteggiamento sprezzante, da “duro” (anche se fragile, introverso), che già aveva iniziato a fare il suo ingresso nella cultura giovanile quantomeno con Marlon Brando. Qualcuno ha detto che quel modo di atteggiarsi, quell’ignorare le regole del bon ton tanto nel rapportarsi al pubblico quanto nelle relazioni fra i sessi, a volte anche piuttosto macho (pur essendo Lou Reed il primo ad avere celebrato i transessuali, con la sua celeberrima Walk on the Wild Side) i giovani rockers bianchi lo avevano mutuato dalla cultura africana e afroamericana. Lo ha detto ad esempio Doris Lessing, che gli africani li conosceva bene, avendo vissuto fino a 30 anni nella Rhodesia del Sud, prima di trasferirsi a Londra.
Può darsi sia così. Gli afroamericani, vivendo in un mondo che non era fatto per loro (ricordiamoci che le leggi razziali in America durarono fino alla fine degli anni 60) furono i primi a doversi inventare una sorta di “controcultura”, una vita e una società parallele dove vigevano regole proprie, diverse rispetto a quelle del mainstream. La cultura underground di Warhol & co. in fin dei conti ha fatto lo stesso. Ha bypassato i canali ufficiali, ha trasformato un loft di Midtown Manhattan nel cuore pulsante dell’arte mondiale, ha creato dal nulla i suoi atteggiamenti, i suoi tic, i suoi gadget. Le sue superstar autodistruttive, in parte provenienti dalla strada, in parte dalla buona società americana (la più celebre, naturalmente, Edie Sedgwick).
Il rock è andato nella stessa direzione. Quello di Lou Reed , ad un certo punto, si è spinto più in là di tutti, pericolosamente sull’orlo del baratro. Ma – ed è questo che importa, oggi – conservando sempre la sua dimensione artistica. Conservando la poesia. Se Lou Reed è stato, fra le altre cose, il “padrino del punk”, tuttavia non è stato in sé e per sé un punk, non ha espresso rabbia viscerale, né rivolta politica (anche se Lou Reed è sempre stato di fede democratica e si è esibito alla Casa Bianca durante la presidenza Clinton, per dare il benvenuto ad un suo fan speciale, il presidente della Repubblica Ceca, Vaclav Havel).
Oggi quella scena non esiste più. Non esiste più neanche quella New York. Non esiste quell’humus culturale, e penso sia normale. La droga ha perso ogni connotato artistico, è un bene di consumo perfettamente inserito nella ruota della globalizzazione mondiale, stupido e abbruttente. L’underground di Warhol ha lasciato il posto ai talent show (che a Warhol devono qualcosa). Persino il rock ha perso terreno, tant’è che per indicare il tipo di musica che suonava all’epoca un Lou Reed oggi si ricorre a perifrasi come alt.rock o indie rock, come a sottolinearne il carattere marginale, periferico (e, sì, è vero che queste etichette richiamano il concetto di undeground, ma all’epoca di Lou Reed l’undeground era entrato in classifica, era diventato il nuovo canone).
Il punto però è un altro. Sì, perché i temi possono cambiare, come le mode, come gli stili. Quello che conta è che nelle nostre vite ci sia ancora spazio per l’arte. Anche nell’universo dell’intrattenimento. Quello che conta è che ci sia ancora gente interessata a raccogliere la sfida di Sofocle (o Poe, o i beat, o chi volete voi). Per farne qualcosa di nuovo, eccitante, sconvolgente. E vero. Come la musica di Lou Reed.