Ogni quattro anni, la cerimonia dell’Inauguration segna uno dei momenti cruciali del processo democratico americano. Nel corso degli ultimi 2 secoli e mezzo, da quando nel 1789 George Washington giurò per la prima volta alla Federal Hall di New York City, il rito ha subito numerose modifiche, assumendo la forma attuale solo all’inizio del XX secolo.
Tuttavia, il suo scopo di fondo rimane immutato: garantire il pacifico trasferimento dei poteri assicurando così la sopravvivenza della democrazia americana.
Anche quest’anno, per la cinquantottesima volta nella storia degli Stati Uniti, questa “liturgia democratica” si è finalmente compiuta. Le formalità sono state rispettate, tra splendide parate, salve di cannone e squilli di tromba, eppure il clima di unità nazionale che dovrebbe pervadere occasioni del genere è tristemente mancato, dando per l’ennesima volta l’immagine di un paese attraversato da una profonda ferita, che dopo le elezioni continua a sanguinare.
Da un lato, infatti, la scelta di più di 60 deputati democratici di non assistere all’Inauguration, provocata dalle incaute dichiarazioni dell’icona dei diritti civili John Lewis (il quale ha apertamente contestato la legittimità del nuovo presidente) ha minato il già fragile equilibrio istituzionale.
Dall’altro, il discorso pronunciato da Donald Trump subito dopo aver prestato giuramento è apparso alquanto inusuale rispetto agli standard della storia recente, e in molti passaggi è sembrato come uno speech più adatto a una campagna elettorale che all’insediamento di un nuovo presidente. Il nuovo inquilino della Casa Bianca ha infatti parlato direttamente ai suoi sostenitori, evitando l’abbraccio ecumenico che normalmente caratterizza l’orazione successiva al giuramento.
Durante tutto il corso della giornata, poi, a Washington, così come in altre città degli States si sono svolte numerose manifestazioni di protesta, alcune delle quali hanno portato a disordini e arresti. Sia l’assenza dei parlamentari sia le marce di opposizione non sono affatto una novità nella storia degli USA: in tempi recenti, il boicottaggio più noto si tenne in occasione del secondo insediamento di Richard Nixon, nel 1973. All’epoca, ben 80 congressmen decisero di non assistere all’inauguration, mentre sulle strade della capitale sfilavano migliaia di manifestanti pacifisti.
Nonostante avesse vinto le elezioni a furor di popolo, infatti, Nixon e la sua amministrazione furono sempre al centro di polemiche per la conduzione della guerra in Vietnam, così come ogni suo successore alla Casa Bianca ebbe la sua buona fetta di proteste nel corso del proprio mandato.
Eppure, nella maggior parte dei casi si trattava di occasioni sporadiche che di solito non contestavano la legittimità del presidente, ma al massimo segnalavano l’opposizione ad alcune sue politiche. Un esercizio del dissenso pienamente conforme alle regole democratiche ma che non intaccava la sensazione di far parte di una stessa comunità.
La vittoria di Trump, invece, sembra aver messo in luce una sorta di cortocircuito della democrazia a stelle e strisce, che in misura minore si era già manifestata durante gli otto anni di Obama. Anche Barack, infatti, dovette fare i conti con un segmento non trascurabile di popolazione il quale ne contestava la legittimità, ritenendo che fosse nato in Kenya o che tramasse segretamente contro il suo paese.
Si trattava, ovviamente, di bufale, della cui diffusione fu responsabile in parte lo stesso Trump, ma la personalità magnetica di Obama riuscì a limitare al massimo i danni. Oggi, al contrario, l’indole polemica e la figura controversa del nuovo commander in chief rischiano di consegnarci 4 anni di campagna elettorale permanente, che trascorreranno tra tweet provocatori, “girotondi” per le strade e una scia infinita di polemiche.
Un clima molto simile a quello che abbiamo conosciuto in Italia durante l’era Berlusconi, in cui allo scontro politico sui contenuti si sostituì una tifoseria senza vie di mezzo: o si era berlusconiani o si era antiberlusconiani, in tutto e per tutto. Con la differenza fondamentale che l’Italia non è la prima potenza mondiale, e che da noi le divisioni sono state sempre il pane quotidiano, ben prima dell’avvento della repubblica.
Ciò che abbiamo ottenuto in cambio, in quegli anni, fu una incomunicabilità di fondo tra due parti del paese, oltre a una oggettiva difficoltà a valutare in modo obiettivo l’operato del governo. Salvo poi accorgersi che svanito il fantasma di Berlusconi, i problemi rimanevano. Speriamo che gli States non facciano la stessa fine.