Trent’anni fa, nel Gennaio del 1987, Leonardo Sciascia scriveva il famoso saggio breve, che il Corriere della Sera intitolò “I Professionisti dell’Antimafia”.
Oggi siamo nel 2017. La dott.ssa Silvana Saguto (e altri suoi colleghi) e la Sezione Misure di Prevenzione Antimafia del Tribunale di Palermo; Roberto Helg, già Presidente della Camera di Commercio di Palermo all’insegna dell’Antimafia, colto a riscuotere una tangente (e condannato per corruzione anche in sede di Appello, nello scorso Settembre); Antonello Montante, presidente di Confindustria Sicilia, eletto in nome dell’Antimafia, e sottoposto ad indagine per presunte cointeressenze mafiose; Franco La Torre, figlio di Pio, che va in rotta con “Libera”, l’Associazione “contro tutte le mafie” di Don Ciotti, ritenendo che “il nostro compito si è affievolito”, e rivolgendo, a quanti, proprio sul caso Saguto, affermavano di non aver sentito bene, un perentorio: “si sturino le orecchie”.
La precarietà del “Criterio Antimafia”, in questi anni, si è confermata ineliminabile: proprio per la sua origine intrinsecamente emotiva e contingente, per non dire opportunistica. Per es:, il Presidente del Senato è stato designato prima, e votato poi, in ragione di meriti antimafia: ma quei meriti, pur così solennemente convalidati, sono stati ugualmente materia di polemiche al calor bianco: venute dallo stesso “ambiente di provenienza”; ancora nel Marzo 2013, a rincalzo di vecchie e mai risolte ruggini, Giancarlo Caselli sosteneva, sull’appena eletto Presidente Grasso: “ha leso la mia immagine, chiedo tutela al CSM”; e si potrebbe continuare. Quali che saranno gli esiti delle ipotesi dubbie in corso di accertamento, quali che siano le valutazioni di urti e accuse reciproche, dove dubbi non ci sono, è comunque di imbarazzante evidenza che il quadro, così delineato, mostri quanto Sciascia fosse stato lucido: al limite della profezia razionale.
In quelle densissime colonne, Sciascia commentava l’opera dello storico Christopher Duggan (allievo di Denis Mack Smith), “La mafia durante il fascismo” (Rubettino, 1986). Ricordava Cesare Mori, “Il Prefetto di ferro” che il Regime, nell’Ottobre 1925, nominò per reprimere, “audacemente, apertamente”, “tutte le maffie e contromaffie”, nelle parole di Roberto Farinacci, Segretario del PNF: anche quelle al plurale, come oggi fa il democratico mainstream.
Durante il fascismo, rilevava Sciascia, col pretesto della repressione antimafiosa, una fazione più conservatrice ridusse all’impotenza un’altra fazione, “che approssimativamente si può dire progressista, e più debole”. Entrambe fazioni fasciste, una usò l’antimafia contro l’altra: al fine ultimo di conseguire “un potere incontrastato e incontrastabile”.
Sicché, concludeva Sciascia, il rischio era ed è, in ogni tempo, in ogni assetto costituzionale, che ne risulti un Apparato autoritario a sè stante, insofferente di controlli e reali responsabilità: “…retorica aiutando e spirito critico mancando”. Nel 1987, scriveva “può benissimo accadere”: ma, provenendo da Enzo Tortora era fin troppo evidente che per lui era già accaduto.
Si ricorderà che in quelle righe Sciascia pose una questione di principio, avvalendosi di due esempi; uno evocandolo, ma non nominandolo, Leoluca Orlando; l’altro, invece, soffermandovisi espressamente: era la nomina di Paolo Borsellino quale Procuratore della Repubblica di Marsala. Il criterio, sin lì seguito, era stata l’anzianità di servizio. Per Borsellino fu ritenuto decisivo l’avere condotto istruttorie sulla criminalità di tipo mafioso. Nessuna questione personale. Borsellino, nel luglio 1991, a Racalmuto, in occasione, di un convegno sullo scrittore, fu lapidario: “Chiarimmo con Sciascia.”
Un anno dopo, nel Gennaio 1988, il CSM, per la direzione dell’Ufficio Istruzione di Palermo, quello dello storico “pool”, preferì il dott. Antonino Meli a Giovanni Falcone, tornando al criterio dell’anzianità. La critica andava subito ad effetto: la mancanza di un criterio stabile, apriva la via all’arbitrio e, perciò, all’indebolimento istituzionale della magistratura. Ma, anzichè riconoscerlo, con maneggio retorico e improntitudine mestierante, si volle far carico di quell’indebolimento, e in non minima parte, proprio al saggio dell’anno prima. E non solo: Sciascia avrebbe offerto la copertura del suo nome ad interessi più o meno inconfessabili. In questo rovesciamento delle parti si distinsero Eugenio Scalfari, Gianpaolo Pansa e il Coordinamento Antimafia di Palermo.
Le parole di Sciascia riguardavano taluni interessi: questo è sicuro. Ma quali? Sentite Borsellino, ancora a Racalmuto: “L’uscita [l’articolo di Sciascia, n.d.r.] mirava ad altro. Ma fu sfruttata purtroppo all’interno di una pesante corrente corporativa della magistratura, che sicuramente non voleva quei giudici e quei pool” .
Una pesante corrente della magistratura. Ecco il punto: dove lo scrittore e il giudice, che si volevano avversari, se non nemici, pianamente concordavano.
Non per nulla, Borsellino tornò su quella mancata nomina. Lo fece il 25 Giugno del 1992, a Casa Professa, una notissima chiesa barocca di Palermo, nel Trigesimo della Strage di Capaci, riferendosi a Falcone, disse: “…non voglio dire che…cominciò a morire..nel Gennaio 1988, e che questa strage del maggio 1992 sia il naturale epilogo di questo processo di morte…”. E poi: “…la magistratura, che forse ha più colpe di ogni altro…”.
Il Gennaio 1988 è quello della bocciatura di Falcone, ad opera del CSM. Non voglio dire: cioè, lo dico. A questa frase, “cominciò a morire..nel Gennaio 1988..”, Borsellino pone un inciso: “…se non forse l’anno prima, in quella data che ora ora ha ricordato Luca Orlando…”. Orlando aveva richiamato l’articolo su “I Professionisti dell’Antimafia”. A questo inciso si è aggrappata ogni sorta di rimasticatura che potesse aduggiare Sciascia: in vita, e dopo.
Ma era quello stesso Orlando che aveva accusato Falcone di “tenere nei cassetti” le inchieste sugli omicidi c.d. politico-mafiosi (Reina, Mattarella, La Torre, Insalaco). Da escludersi, perciò, che una “concordia antisciasciana”, includendo Borsellino, fosse sorta dopo Capaci. Quelle ultime parole di Borsellino, appena pronunciate, vollero semmai unilateralmente mitigare le improvvide asprezze di Orlando, in un momento di specialissima tensione.
Invece, quanto già sostenuto a Racalmuto non era stato detto per inciso: poichè, mentre assicurava sull’intervenuto chiarimento, aveva mosso un’accusa precisa: “…una pesante corrente della magistratura…”; e quella sera, infatti, a Palermo, il cuore dell’invettiva sarebbe tornata ad essere la magistratura: “…ha più colpe di ogni altro…”, “…epilogo di questo processo di morte…”, non Leonardo Sciascia.
La voce che si impenna, lacerando un silenzio attonito; gli epiteti, “…Giuda…”, che sanguinano sofferenza; lo sguardo, che è un giuramento di verità, tutto insomma, come ciascuno di voi può constatare semplicemente riandando al filmato di quell’ultimo discorso di Borsellino, lo dimostra con purezza di intendimenti, pari solo al calore e alla grandezza dell’uomo.
Nel saggio dello storico inglese, fra l’altro, si legge che quello era “…un ambiente in cui le accuse di criminalità erano un’arma politica fondamentale..” (Op. cit. pag. 11) ; “ …l’accusa di ‘mafia’ o di ‘mafioso’…veniva sfruttata per scopi politici. Tali accuse potevano distruggere non solo singoli individui, ma intere fazioni ed amministrazioni.” (ibidem, pag. 100); se una proprietà era ritenuta sospetta, con un provvedimento amministrativo era dichiarata “centro infetto” “…i criteri per dichiarare infetta una proprietà erano molto ampi…” (ibidem, pag. 155).
Leonardo Sciascia ovviamente non ne scrisse a caso. Volle ammonire che la Giustizia agisce su un terreno scivoloso e colmo di insidie: sempre le stesse. E questo gli immemori, i mestatori, di ogni ruolo, in ogni sede, allora e ora, non glielo possono perdonare.