Da settimane, ormai, subiamo un continuo bombardamento mediatico sulla questione della presunta “influenza” russa nel corso delle elezioni presidenziali americane. Una questione complessa, sorta quando durante la campagna elettorale il sito Wikileaks rese note al pubblico, a più riprese, migliaia di email del comitato nazionale del partito democratico e dello staff di Hillary Clinton.
Già all’epoca, in assenza di qualsiasi prova concreta al riguardo, l’establishment democratico aveva individuato un sicuro colpevole dell’hackeraggio: il Cremlino.
Dopo l’inaspettata vittoria di Donald Trump, però, il tema è stato al centro della scena politica in modo crescente, creando un gigantesco cortocircuito mediatico nel quale è difficile capire cosa stia davvero succedendo.
Da un lato, infatti, c’è un presidente eletto che tramite il proprio account twitter (sic!) si pone in diretto contrasto con le maggiori agenzie di intelligence del paese (CIA, FBI, NSA), nonché con gran parte dell’establishment del proprio partito; dall’altro un presidente uscente già premio nobel per la pace (sic!) che ad appena venti giorni da quando dovrà lasciare la Casa Bianca, prova in tutti i modi ad alimentare uno scontro frontale con la Russia, applicando sanzioni (per fortuna non ricambiate) e sperando in un’escalation tale da impedire il riavvicinamento diplomatico voluto dal suo successore.
A mettere la ciliegina sulla torta ci sono poi i maggiori network di informazione, che invece di fare da “cani da guardia del potere” si bevono tutto quello che gli viene propinato, alimentando un clima di isteria collettiva quasi fossimo in piena guerra fredda.
Ma cosa sappiamo veramente sulla probabile ingerenza russa?
In realtà, se sgombriamo il campo dalla propaganda, molto poco. Sulla vicenda abbiamo in sostanza due versioni opposte: da un lato, infatti, Julian Assange, fondatore di Wikileaks, continua a dichiarare (lo ha ribadito in un’ intervista due giorni fa) di non aver ricevuto il materiale hackerato né dalla Russia né da altri attori governativi; dall’altro lato, il report reso noto venerdì dalle maggiori agenzie di intelligence su richiesta dell’amministrazione uscente accusa direttamente la Russia, ma non fornisce prove convincenti al riguardo.
Nello specifico, la relazione in questione (una ventina pagine pubbliche più alcune parti secretate non a nostra conoscenza) dichiara che “l’obiettivo della Russia era quello di minare la fiducia del pubblico nel processo democratico, denigrare il Segretario di Stato Clinton e compromettere la sua eleggibilità e la sua potenziale presidenza”. Il report aggiunge poi che la Russia ha sviluppato una “chiara preferenza” per Donald Trump e “aspirava ad aumentare le chances di elezione del presidente eletto gettando discredito sul Segretario di Stato Clinton”.
Affermazioni perentorie, seguite dalla descrizione di alcune “tattiche propagandistiche” utilizzate dell’emittente televisiva Russia Today. Insomma, l’unica prova della colpevolezza che ci viene offerta pubblicamente può essere così riassunta: una TV legata al Cremlino (che sia finanziata da Mosca è di dominio pubblico) ha fatto propaganda filorussa e durante le elezioni ha chiaramente parteggiato per uno dei candidati alla presidenza.
Un po’ poco per scatenare la terza guerra mondiale, non credete? Tanto basterebbe per far storcere il naso a qualsiasi reporter degno di questo nome.
Riassumendo, abbiamo due fonti delle quali è difficile fidarsi: Assange, infatti, ha un diretto interesse a proteggere chi gli ha consegnato le informazioni, mentre le agenzie di intelligence non forniscono in questa fase prove serie, e in passato hanno dimostrato più volte di saper manipolare le informazioni in modo da ingannare il pubblico. Ricordate il discorso del 2003 all’ONU di Colin Powell? Allora, per giustificare l’intervento militare in Iraq, l’ex Segretario di Stato sfoderò degli intelligence report che poi si rivelarono totalmente infondati.
Un’altra circostanza curiosa è poi l’atteggiamento opportunistico delle parti politiche nei confronti di Assange: solo 5 anni fa, quando il leader di Wikileaks rese noti dei documenti secretati su alcuni crimini di guerra americani in Iraq e Afganistan, i repubblicani (e persino Donald Trump), chiedevano a gran voce la sua esecuzione, mentre i democratici lo consideravano un eroe della libertà di stampa. Ora i ruoli si sono totalmente invertiti, e il presidente eletto arriva a fidarsi più di Assange che della CIA.
In tutta la vicenda, la reazione di Trump, che fino a qualche giorno fa ha tweettato in modo impulsivo screditando le maggiori organizzazioni di spionaggio, è molto pericolosa e rischia di minare la futura credibilità dell’intelligence. Invece di adottare un approccio “presidenziale”, riservandosi di approfondire i propri sospetti sulla credibilità dei vertici dello spionaggio nel chiuso delle proprie stanze, non appena abbia ricevuto i pieni poteri, ha risposto dandosi la zappa sui piedi. Come potremo credere a futuri allarme della CIA, se lo stesso presidente eletto è il primo ad averne in passato sbugiardato i report?
Insomma, è senza dubbio possibile che i russi abbiano hackerato le mail del comitato nazionale democratico, facendo ciò che tutte le nazioni, Stati Uniti compresi, fanno da sempre: acquisire informazioni penetrando nei sistemi dei propri rivali sulla scena internazionale. In quel caso, sarà necessario investire maggiormente nella cybersecurity per evitare che situazioni simili possano verificarsi in futuro.
Non si può nemmeno ignorare, però, che vi sia un interesse politico dietro la vicenda. È innegabile infatti che ci siano resistenze fortissime all’annunciato avvicinamento diplomatico della futura amministrazione con Mosca, che porterebbe a un drastico spostamento degli equilibri di forze sulla scena mondiale (dalla Siria all’Ucraina passando per la Cina).
Dipingere Trump come un “manichino di Putin” e tentare indirettamente di delegittimarne la vittoria elettorale crea un clima di sospetto che lo indebolirà nelle sue future relazioni internazionali. Sullo sfondo, c’è infine un cortocircuito mediatico di proporzioni gigantesche. Invece di spiegare al pubblico con serietà cosa sta succedendo, i giornali soffiano sul fuoco della disinformazione.
Non è un caso che le divisioni interne al paese, già politicamente polarizzato da anni, si siano su questo tema acuite, rendendo un optional anche le poche certezze a nostra disposizione. In un recente sondaggio commissionato da You-Gov, per esempio, ben il 52% degli elettori democratici si è detto “assolutamente certo” o “certo” che “la Russia abbia direttamente interferito nel processo elettorale truccando il conteggio dei voti”.
Peccato che nessuno contesti un’ingerenza di questo tipo, di cui non c’è nessuna prova: le accuse riguardano invece “la preferenza dei russi per Trump” e “il tentativo di screditare Hillary Clinton”. Detto in altri termini, il coinvolgimento di Mosca nella propaganda elettorale.
D’altronde, come biasimare la confusione del pubblico, se il titolo più frequente nei maggiori quotidiani americani in questi giorni era “la Russia ha hackerato le elezioni”, e se persino il Washington Post è arrivato a diffondere bufale come quella secondo cui “hacker russi avrebbero attaccato la rete elettrica americana” (ripresa dai media di tutto il mondo ma rivelatasi una fake news)? In queste condizioni, qualsiasi conclusione rischia di essere minata alla fonte.
Ma facciamo, in conclusione, un piccolo esperimento. Ammettiamo che sia tutto vero, e cioè che hacker russi siano penetrati nei server del DNC consegnando migliaia di mail a Wikileaks. Dobbiamo farci a questo punto due semplici domande.
La prima è questa: sono state diffuse da Wikileaks notizie false? No. Al contrario sono stati svelati i retroscena (autentici) della campagna elettorale di Hillary Clinton, fornendo paradossalmente al pubblico maggiori informazioni rispetto alle vere posizioni politiche della candidata democratica, spesso in contrasto con quanto affermato agli elettori pubblicamente.
Il secondo, e più pesante interrogativo è invece il seguente: cosa si contesta (o si vorrebbe contestare in futuro) a Trump? L’aver inconsapevolmente approfittato di un clima creato dalla diffusione di tali notizie (tra l’altro determinato dall’incapacità degli apparati di intelligence a prevenirla) o l’essere stato parte attiva nella questione, in una sorta di perversa “intelligenza col nemico”?
Purtroppo, sarà difficile d’ora in poi distinguere il vero dal falso, o meglio il verosimile dall’inattendibile. Una cosa è però certa: come diceva lo scrittore Multatuli, “non dubitare di nulla è il mezzo più sicuro per non sapere mai niente”.